STORIA DELLA CHIESA 2

La materia vastissima della storia ecclesiastica si può dividere per argomenti o aspetti diversi, oppure per tratti cronologici.

La divisione per argomenti si compie raggruppando insieme quello che riguarda i vari aspetti della vita della Chiesa:

-         missioni e propagazioni del cristianesimo,

-         rapporti fra Stato e Chiesa,

-         limitazioni e persecuzioni,

-         costituzione e disciplina ecclesiastica,

-         culto e liturgia,

-         costumi e cultura,

-         arte e letteratura,

-         insegnamento e dottrina.

La divisione cronologica è molto discussa negli ultimi tempi.

Il teologo tedesco Cristoforo Kennel ha scritto una storia divisa in 3 momenti (già nel rinascimento c’erano epoca bella, epoca della decadenza e epoca della rinascenza):

  1. epoca antica (fino al IX secolo),

  2. epoca medievale (fino al XV secolo),

  3. epoca nuova (rinascimentale).

Negli ultimi decenni si va diffondendo maggiormente una divisione quadripartita:

  1. epoca antica à è l’epoca in cui la Chiesa visse prevalentemente nell’ambito della cultura greco-romana e va dalla nascita di Cristo fino al 692 (sinodo Trullano di Costantinopoli);

  2. epoca medievale à è l’epoca in cui la fede cattolica domina in tutti i campi della vita pubblica e culturale, con le nazioni romanico-germaniche alla testa, e va dal 692 al 1294; viene diviso in 2 periodi:

o       alto medioevo (anteriore alla lotta per le investiture e al pontificato di Gregorio VII, e quindi va dal 692 al 1073),

o       basso medioevo (posteriore alla lotta per le investiture e al pontificato di Gregorio VII, e quindi va dal 1073 al 1294);

  1. epoca nuova à è l’epoca delle riforme e tempo di transizione, in cui una grave crisi travaglia la cristianità fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, e va dal 1294 al 1648 (pace di Vestfalia);

  2. epoca moderna à è l’epoca che arriva fino ai giorni nostri, passando per la rivoluzione francese e le guerre mondiali, e va dal 1648 ad oggi.

Il Medioevo è età di mezzo e può essere suddiviso anche in 3 momenti:

-         incubazione (con Gregorio Magno) à va dal 692 al 750;

-         coesione (con Carlo Magno) à va dal 750 al 1054;

-         diastasi (o differenziazione) à va dal 1054 al 1294.

Il Medioevo è stato un periodo ricchissimo e non affatto oscuro come si dice.

Occorre definire il termine laico (dal greco laicos= libero, pubblico, popolare): alcuni dicono che gli Stati non devono avere niente a che fare con la religione perché sono laici, ma nel Medioevo tutto è permeato dall’idea di Dio, perché gli Stati, liberamente, sceglievano di professare la religione cattolica.

 

L’alto Medioevo

 

LE MISSIONI TRA I GERMANI

 

Nel passaggio dall’antichità cristiana al Medioevo, c’è una figura predominante che è Gregorio Magno: questo Papa avvia la conversione dei popoli germanici.

Egli stesso intrattenne rapporti con la regina Teodolinda dei Longobardi, la quale si convertì; inoltre, era amico di:

-         Aleandro vescovo di Siviglia (Spagna),

-         Gregorio di Gubbio.

Le trasmigrazioni barbariche segnarono un periodo di transizione e ci fu uno sposalizio fecondo tra la cultura latina (decadente) e la forza barbarica: la latinità ebbe una nuova proliferazione, mentre lo Stato, liberamente, trovò nella religione l’elemento di coesione di queste culture.

Nel periodo che va dal IV al VII secolo, si ebbe la conversione al cristianesimo di quei popoli germanici che, nelle trasmigrazioni barbariche, erano venuti a stanziarsi nel territorio dell’impero romano.

La conversione di Clodoveo e dei Franchi segnò la vittoria della Chiesa cattolica tra i Germani in modo definitivo: Clodoveo fu unto re cristianissimo dei Franchi.

Da quel momento, si iniziò la diffusione del cristianesimo anche fra le popolazioni germaniche ad oriente del Reno, cioè fra gli Alemanni, i Bavari, i Turingi e i Frisi, popolazioni che ben presto capitarono tutte sotto il dominio dei Franchi.

 

La stirpe degli Alemanni o Svevi, di puro e genuino sangue germanico, occupò il territorio a sud del Meno, fino alle Alpi, ma mantenne il proprio sistema di vita anche nel territorio di cultura romana: rimasero pagani e veneravano alberi, acque, colline e burroni, cui sacrificavano cavalli, buoi ed altre bestie.

Sottomessi ai Franchi in seguito alla vittoria di Clodoveo, alcuni di essi si avvicinarono alla religione cristiana. Pare che in un primo tempo non sia stata svolta una sensibile attività missionaria, né da parte dei principi franchi e né da parte delle diocesi del territorio e del vicinato; un notevole progresso, però, si ebbe con l’istituzione di una sede vescovile a Costanza, nel cuore della regione degli Alemanni. Questa sede divenne il vescovato più importante degli Svevi, una delle diocesi più grandi e più celebri della Germania; l’influsso sul popolo alemanno fu così forte che un’assemblea delle varie stirpi e dei loro capi decise di accettare la religione cristiana. Il Pactus Alamannorum, la più antica legge alemanna di quel tempo, presentava già una colorazione cristiana.

Grandi meriti per il progresso del cristianesimo s’acquistarono alcuni missionari stranieri, per lo più monaci iroscozzesi, che costruirono celle e conventi come punti di appoggio della loro predicazione evangelica:

-         S. Fridolino di Poitiers, fondatore della chiesa di S. Ilario sul Reno;

-         S. Trudberto, sulla cui tomba in Brisgovia sorse il monastero che da lui prende il nome;

-         S. Colombano di Luxeuil, che fondò un monastero vicino Costanza;

-         S. Gallo, amico di S. Colombano, che però si separò da lui e fondò un’abbazia molto celebre;

-         Pirmino, vescovo missionario, probabilmente visigoto, che fondò un’abbazia benedettina su un’isoletta del lago di Costanza.

Questi missionari agivano sotto la protezione dei signori, fra cui Carlo Martello, che, insieme ai figli Carlomanno e Pipino, rinsaldò il dominio franco nella Svevia, che si era indebolito.

 

I Bavari emigrarono dalla Boemia nelle province romane della Rezia e del Norico, occupando la regione tra l’Adige e il Danubio; anch’essi dovettero riconoscere presto il dominio dei Franchi.

Nelle valli alpine e lungo il Danubio risiedevano numerosi latini cattolici, tra i quali avevano svolto la loro opera S. Severino e più tardi S. Valentino, vescovo abate di Maia, presso Merano. In questo modo i Bavari ebbero modo di conoscere il cristianesimo.

Ci fu anche l’opera di numerosi missionari stranieri:

-         Eustasio, discepolo di Colombano e suo successore come vescovo di Luxeuil;

-         S. Ruperto da Worms, detto “l’apostolo della Baviera”, che costruì la chiesa e il monastero di S. Pietro a Salisburgo;

-         Emmerano di Poitiers, che fondò un monastero a Ratisbona;

-         S. Corbiniano, che fondò la chiesa vescovile di Frisinga.

Con S. Bonifacio fu sistemata l’organizzazione ecclesiastica del paese e nacquero le prime diocesi: Passavia, Ratisbona, Salisburgo e Frisinga.

Il diritto popolare bavaro del 740-744 ci presenta un paese cristiano, che vede nella protezione della Chiesa un suo compito principale.

Il Papa Leone III, dietro domanda di Carlo Magno, elevò Salisburgo a sede metropolitana per la Baviera e i paesi slavi più ad oriente.

 

La Turingia venne assoggettata al dominio dei Franchi nel 531, dai figli di Clodoveo.

Nella zona sud-occidentale fissarono la loro dimora dei Franchi cristiani, e così questa regione fu chiamata Franconia orientale.

Il vescovo irlandese Chiliano vi predicò con grande successo e la maggior parte del popolo ripudiò gli déi pagani. Però, scoppiarono delle sommosse e vi furono anche dei martiri; tuttavia, il paganesimo rispuntò da più parti. Ci volle una nuova missione per completare la conversione e gettare le basi dell’organizzazione ecclesiastica che ancora mancava: S. Bonifacio consacrò la diocesi di Wurzburg e consacrò primo vescovo il suo discepolo Burcardo.

 

L’azione missionaria svolta sinora nella Germania, anche se fu molto benefica, mancava di unità ed organizzazione: i missionari iroscozzesi, sacerdoti e vescovi, erano più asceti che curatori d’anime, e di solito lavoravano per conto proprio, dimostrando poca sensibilità per l’organizzazione ecclesiastica e per l’ordinamento gerarchico.

Un cambiamento si ebbe con i missionari anglosassoni, che portarono quello che mancava, cioè talento organizzativo e unione e dipendenza col centro ecclesiastico, il papato di Roma. I più celebri sono S. Villibrordo, detto “apostolo dei Frisi”, e Vinfrido-Bonifacio, detto “apostolo della Germania”.

Particolare difficoltà incontrò la diffusione del cristianesimo presso i Frisi, popolazione che abitava nel nord della Germania, lungo la costa del Mare del Nord. Impegnati a combattere per la loro indipendenza contro i Franchi, loro vicini ad occidente, erano ostili a priori alla religione di quelli.

Perciò, l’azione missionaria all’inizio ebbe qualche risultato solo nella regione sud-occidentale, dove venne presto ad estendersi il dominio franco; vi lavorano come missionari:

-         S. Armando, vescovo itinerante proveniente dall’Aquitania, detto “l’apostolo del Belgio”;

-         S. Eligio, vescovo di Noyon-Tournai (prima era stato orefice);

-         Cuniberto, vescovo di Colonia;

-         Vilfrido di York, che, cacciato dall’Inghilterra, era in viaggio verso Roma.

L’opera più grande, però, fu svolta dal monaco anglosassone Villibrordo, discepolo di Vilfrido, venuto dall’Inghilterra con 11 compagni; con l’appoggio del maggiordomo franco Pipino il Medio e munito di pieni poteri dal Papa Sergio I, in seguito a un viaggio a Roma, egli lavorò per 50 anni nella Frisia occidentale; durante un secondo viaggio a Roma, il Papa, su richiesta di Pipino, lo consacrò arcivescovo dei Frisi, con residenza ad Utrecht, e gli diede il nuovo nome di Clemente. Come centro del suo lavoro, egli fondò un’importante abbazia vicino a Treviri.

Il più grande missionario della Germania fu Vinfrido, nato nel 673 in Inghilterra ed educato presso abbazie benedettine, apprezzato maestro di sacre discipline; come molti suoi connazionali, anch’egli fu preso dal desiderio di predicare il Vangelo ai Sassoni abitanti sul continente e fece un primo viaggio missionario, ma senza successo. Non volendo tornare in Inghilterra, si recò a Roma, dove Papa Gregorio II gli diede istruzioni per il lavoro missionario tra i pagani della Germania ad oriente del Reno: in quell’occasione ricevette il nome del martire romano Bonifacio.

Lavorò per alcuni anni in Frisia, a fianco di Villibrordo (Clemente), perfezionando presso di lui la sua vocazione missionaria, ma senza lasciarsi trattenere come suo futuro successore; si recò poi in una nuova zona di missione, che già a Roma era stata presa in considerazione, e cioè nell’Assia e nella Turingia. Dopo breve tempo riuscì a battezzare migliaia di pagani e a ricondurre alla purezza della fede i cristiani ricaduti nel paganesimo.

Dopo aver inviato a Roma un’eccellente relazione sulla sua attività, il Papa lo chiamò e lo consacrò vescovo missionario della Germania ad oriente del Reno, senza fissargli una dimora stabile; egli prestò un particolare giuramento di obbedienza al Papa, che lo legava strettamente a Roma e ai suoi ordinamenti ecclesiastici. Come altri suoi connazionali anglosassoni, era convinto che una stretta unione con Roma era la condizione indispensabile per la prosperità di una chiesa.

Lavorò per dimostrare la nullità e l’impotenza degli déi pagani; costruì una chiesa in onore di S. Pietro e fondò numerosi monasteri benedettini, che divennero centri di cultura cristiana e punti di irradiazione missionaria: la fondazione prediletta fu la Fulda (la Montecassino dei popoli germanici), che il Papa, su richiesta di Bonifacio, rese esente dal potere del vescovo e sottomise direttamente alla Sede Apostolica.

Con il Papa Gregorio III, Bonifacio divenne arcivescovo, con l’autorità di consacrare altri vescovi per il territorio delle missioni tedesche; così iniziò per lui un lavoro prevalentemente di organizzazione e di riforma. Nel ritorno dal suo terzo viaggio a Roma, nella sua qualità di legato della Sede Apostolica in Germania, riorganizzò la chiesa di Baviera e costituì diverse sedi vescovili.

Mentre svolgeva questo lavoro di organizzazione, non perse di vista l’altra parte del regno dei Franchi, dove la vita religiosa era decaduta, il clero inferiore era incolto, l’alto clero era immerso in attività mondane e quasi privo di collegamento con Roma.

Il maggiordomo Carlo Martello si era molto impegnato per la causa cattolica, ma ebbe pochi riguardi per i diritti della Chiesa: nominò vescovi ed abati solo per questioni politiche e dispose dei beni ecclesiastici per scopi profani.

I suoi 2 figli Carlomanno e Pipino, a lui succeduti nel governo del regno dei Franchi, dimostrarono maggior comprensione per i compiti della Chiesa; nel 743 convocarono il concilio germanico I (non sappiamo dove) e nel 744 altri 2 sinodi, che, sotto la direzione di Bonifacio, emanarono provvedimenti salutari per la riforma della chiesa franca: il clero doveva condurre una vita secondo i canoni ed essere assoggettato alla vigilanza dei vescovi, i monaci dovevano avere la regola benedettina, si proibirono usanze pagane e superstiziose, si richiese la celebrazione annuale dei sinodi.

I vescovi franchi nel 747 mandarono al Papa una professione collettiva di fede cattolica, di adesione all’unità della Chiesa e di sottomissione a Roma.

Colonia doveva essere la sede arcivescovile di Bonifacio, ma egli occupò la sede vescovile di Magonza (non si sa perché). Quando Pipino si fece eleggere re dei Franchi, ricevette da Bonifacio l’unzione regia.

Ormai anziano, Bonifacio decise di tornare in Frisia, dove la missione era rimasta incompleta dopo la morte di Villibrordo; dopo aver assicurato in Magonza la successione del suo discepolo Lul, riprese con successo l’opera di conversione. Ma nel 754 alcuni pagani fanatici assalirono l’accampamento dei missionari, presso Dokkum, ed uccisero Bonifacio con 52 compagni. La memoria del santo martire venne presto celebrata con grande solennità sia in Inghilterra che in Germania (la tomba si trova a Fulda, dove si riunisce la Conferenza Episcopale tedesca).

 

I Sassoni erano un forte popolo germanico, che si era esteso dall’Elba fino al Reno e poi anche fino alla Turingia. Essi opposero una accanita resistenza al cristianesimo, che era la religione dei loro avversari politici: alla morte di Bonifacio, erano l’unico popolo tedesco ancora quasi completamente pagano.

Alcuni predicatori anglosassoni iniziarono una missione nei territori sassoni:

-         i fratelli Evald il bianco e Evald il nero (per distinguerli), monaci che morirono martiri;

-         Suitberto, uno dei compagni di Villibrordo;

-         Lebuin e Willehad, che raggiunsero scarsi risultati.

Nonostante le spedizioni di Carlo Martello e di Pipino, i Sassoni continuarono ad invadere e depredare i territori franchi.

Carlo Magno decise di scongiurare definitivamente il pericolo, occupando la Sassonia: l’impresa era innanzitutto politica, ma vi si connetteva anche la questione religiosa, poiché non si poteva fondere in un unico popolo Franchi e Sassoni senza la comunione della fede. Quindi, c’era un desiderio espansionistico e non missionario, ma si arrivò a far accettare ai Sassoni il Vangelo, mediante la spada, cioè con l’uso della forza.

Solo dopo 9 spedizioni si toccò nella trattativa di pace la questione religiosa: furono i Sassoni stessi che offrirono, a garanzia della loro sottomissione, la conversione al cristianesimo, che fu dichiarata obbligatoria nel 777. Ma il popolo si ribellò e, sotto la guida di Vitichindo, insorse per la difesa e l’indipendenza dell’antica fede pagana; le chiese cristiane furono distrutte, i missionari cacciati o uccisi, i connazionali passati al cristianesimo gravemente oppressi. Carlo Magno fece allora giustiziare 4500 prigionieri sassoni (ci sono riserve sul numero delle vittime, ma la strage è fuori d’ogni dubbio).

Questo orribile fatto accese ancora di più il popolo, che tornò a combattere ma rimase sconfitto.

Vitichindo, riconoscendo l’inutilità della resistenza, si fece battezzare, con Carlo Magno che gli fece da padrino: egli si convinse che Cristo è più forte degli déi pagani.

Più tardi ci furono ancora delle insurrezioni nella Sassonia settentrionale, a causa delle decime ecclesiastiche; ma un po’ alla volta si arrivò alla calma.

Il territorio fu organizzato dal punto di vista ecclesiastico, elevando a diocesi una serie di territori missionari: Brema (che sarà la base di lancio per le missioni in Danimarca), Verden, Minden, Paderbon (che oggi è la più importante della Germania), Munster (che significa monastero), Osnabruck, Halberstadt e Hildesheim.

La conquista e la conversione della Sassonia al cristianesimo rese possibile la creazione di un regno tedesco unitario; dopo 1 solo secolo, i Sassoni erano alla testa di tutte le varie stirpi tedesche.

 

I Germani del nord erano ancora pagani; Carlo Magno aveva occupato alcuni territori, ma con il figlio Ludovico il Pio ci fu la conversione al cristianesimo della Danimarca.

Il lavoro missionario in questa terra fu svolto da Ebbone arcivescovo di Reims, un sassone di nascita, che era stato nominato legato papale per il settentrione.

Tuttavia, l’opera principale fu svolta da S. Anscario, monaco e maestro nell’abbazia sassone di Korvey, una filiale dell’abbazia benedettina di Corbie in Francia. Egli fu chiamato “apostolo del Nord”. Quale base di appoggio per le missioni nordiche, fu eretto l’arcivescovato di Amburgo.

Anscario si recò a Roma dal papa Gregorio IV, il quale lo nominò (a fianco di Ebbone) legato per i Danesi, gli Svedesi e gli Slavi del nord.

Quando i corsari normanni distrussero Amburgo, Anscario occupò la sede vescovile di Brema, che si era resa vacante, unendola con Amburgo. Il Papa Niccolò I convalidò l’arcidiocesi di Amburgo-Brema, staccandola dal territorio metropolitano di Colonia, nonostante le proteste degli arcivescovi di Colonia.

Ma il cristianesimo si sviluppò in maniera più larga e sicura solo più tardi, sotto l’arcivescovo di Amburgo-Brema Adalgad, dopo la vittoria dei Germani sui Danesi.

Il re Araldo Blaatant (dente azzurro) si fece battezzare insieme al figlio Svenone I Barba Forcuta; il figlio di Svenone, Canuto il Grande, un valente sovrano, favorì con ogni zelo il cristianesimo e la Chiesa, che intraprese anche un pellegrinaggio a Roma.

L’arcivescovo di Amburgo-Brema Adalberto cercò di trasformare il suo grande territorio in un patriarcato del Nord, ma ricevette l’opposizione della Curia romana e dovette accontentarsi della dignità di legato e vicario papale.

Nel 1104 Lund venne elevata al rango di metropoli per la Danimarca, la Svezia, l’Islanda e la Groenlandia.

 

Nella Svezia il primo annuncio cristiano fu fatto da S. Anscario e la prima chiesa cristiana sorse a Birka. L’arcivescovo Ebbone di Reims, legato pontificio, mandò in Svezia un suo parente, Gauzberto, come vescovo missionario, ma dopo un iniziale successo dovette ritirarsi a causa di un’insurrezione popolare pagana.

Anscario lavorò ancora in Svezia e gli fu permesso di predicare e tenere funzioni, anche se i progressi furono scarsi, specialmente a causa delle continue guerre.

Dopo il battesimo del re Olaf, fu fondata la prima diocesi a Skara, a cui ne seguirono altre.

Il paganesimo iniziò a scomparire, anche se in maniera lenta e con reazioni violente.

Il Papa Alessandro III nel XII secolo elevò la diocesi di Upsala alla dignità di arcivescovato nazionale per la Svezia.

Intanto, in Norvegia e in Islanda l’antica fede pagana era profondamente minata, in quanto s’erano molto diffusi un cupo fatalismo e la paura dei demoni, con vaste espressioni di ateismo pratico.

L’inizio della conversione della Norvegia si ebbe con la salita al trono del re Haakon il Buono, che era stato educato cristianamente alla corte anglosassone d’Inghilterra. Non gli riuscì, però, di rendere il cristianesimo religione di stato, a causa delle resistenze dei contadini, tenaci conservatori.

Con l’aiuto di missionari anglosassoni, il cristianesimo in Norvegia riuscì ad affermarsi con altri 2 re:

-         il re Olaf Trigvason, che si fece battezzare in Inghilterra;

-         il re Olaf Haraldson, detto il Grosso (e più tardi il Santo), che si fece battezzare in Normandia.

Contro la minoranza che si opponeva, si ricorse alla violenza e ci furono dei martiri pagani.

Il re Olaf Haraldson cadde nella battaglia contro i capi ribelli e i Danesi, e il popolo lo venerò come un santo nazionale.

Nel XII secolo venne istituita una provincia ecclesiastica norvegese alle dipendenze dell’arcivescovo di Nidaros-Drontheim.

In Islanda predicò per incarico del re il sacerdote sassone Dankbrand, che con il suo modo di fare irruento e focoso ottenne pochi risultati.

Più tardi, però, si decise che tutti gli Islandesi si dovevano battezzare e che era inutile persistere nella fede pagana, dopo che Cristo aveva vinto ovunque.

Vennero ancora consentiti dei sacrifici pagani occulti e solo il re Olaf Haraldson eliminò queste usanze.

Sorsero diocesi a Skalholt e Holar.

In Groenlandia, colonizzata dall’Islanda, ebbe la predicazione del cristianesimo grazie agli sforzi del re Olaf Trigvason di Norvegia. Ma nel XIV-XV secolo questa nuova religione venne eliminata ad opera di pagani.

Nell’XI secolo, l’annuncio è portato in Nord-America.

 

I Normanni, cioè i Germani del nord che abitavano in Danimarca e in Scandinavia, avevano cominciato a conquistare e saccheggiare le isole europee e alcune zone costiere: erano grandi viaggiatori (fino in Russia).

Il capo normanno Rollone si fece battezzare nel 912 col nome di Riberto, per sposare Gisella, figlia dell’imperatore Carlo il Semplice di Francia, che gli diede anche quella parte del suo regno che fu poi chiamata Normandia.

I Normanni in Francia furono presto latinizzati, anche se mantennero il loro spirito guerriero; scesero anche in Italia, conquistando le contee di Anversa e delle Puglie e costituendo un vero e proprio regno normanno.

 

 

LE MISSIONI TRA GLI SLAVI

 

Le trasmigrazioni barbariche dei Germani avevano lasciato liberi alcuni territori dell’Europa, dove si stabilirono presto le numerose stirpi degli Slavi, soprattutto nelle valli delle Alpi orientali fino all’Adriatico e nella maggior parte dei Balcani settentrionali. Della loro cristianizzazione si occuparono sia la chiesa di Roma che quella di Bisanzio.

Il cristianesimo di tipo occidentale giunse agli Slavi specialmente in seguito all’espandersi del dominio franco verso oriente, sotto Carlo Magno e i suoi successori:

-         i Carantani, popolazione slovena stanziata in Carinzia, Carnia e Stiria, furono evangelizzati nel corso dell’VIII secolo da un’azione missionaria proveniente dai vescovati di Salisburgo e di Passavia;

-         i Croati, stanziati a sud della Dalmazia, avevano abbracciato la nuova fede sotto il loro principe Porga, in seguito alla predicazione di missionari mandati da Roma;

-         gli Avari, popolo imparentato con gli Unni e abitante nell’antica Pannonia, si dichiararono spontaneamente per la religione del vincitore quando furono sottomessi da Carlo Magno;

-         i Moravi, il cui regno si estendeva dalla Boemia attraverso la Slovacchia, furono agganciati da Carlo Magno in una leggera dipendenza dal regno dei Franchi, in maniera che tra loro lavorarono dei missionari franco-bavaresi; con il principe Privina il popolo apparve superficialmente convertito. Però il duca Ratislao passò presto alla chiesa greca. Il grande regno dei Moravi si sfasciò verso la fine del IX secolo e poi ci fu l’invasione degli Ungari pagani; più tardi divenne provincia boema, per cui fu assicurato il dominio della chiesa di Roma.

 

Quando ai primi del IX secolo una parte dei Cechi dovette sottomettersi a Carlo Magno, si aprì la via al cristianesimo anche verso la Boemia. Questa religione si diffuse per opera di sacerdoti moravi: la Boemia, allora, dipendeva dalla Moravia.

Il primo duca cristiano di Boemia fu Spitigniev (e non il padre Borzivoy, che si vorrebbe battezzato da S. Metodio); egli riconobbe la sovranità tedesca, chiamò sacerdoti tedeschi e fece costruire chiese.

Seguirono, però, molti disordini: la madre Ludmilla fu uccisa per ordine della nuora Drahomira, la quale era battezzata ma aveva sentimenti ancora pagani. Il nipote di Ludmilla, il duca Venceslao il Santo, che faceva vita di asceta, fu ucciso dal proprio fratello, il duca Boleslao I il Crudele; egli, però, dovette piegarsi al vassallaggio di Ottone I. Il figlio Boleslao II il Pio, invece, favorì la chiesa.

La Boemia ottenne la propria diocesi a Praga, grazie alla rinuncia di S. Volfango, vescovo di Ratisbona; il primo vescovo fu il sassone Ditmaro, il secondo fu S. Adalberto, un ceco di nobile origine, che fu poi “l’apostolo dei Prussiani” e martire.

I costumi pagani solo lentamente cedettero il posto alle usanze cristiane.

 

Dalla Boemia il cristianesimo si diffuse fino ai Polacchi, soggetti anch’essi al regno tedesco di Ottone I. Il duca Miecislao I, probabilmente di origine normanna, sposò la cristiana Dobrava, figlia di Boleslao I di Boemia, e dietro sua insistenza si fece battezzare già il primo anno dopo il matrimonio. In poco tempo tutto il popolo era convertito, per opera di sacerdoti boemi e tedeschi.

La prima diocesi polacca sorse a Poznan; Ottone I non poté sottometterla all’arcidiocesi di Magdeburgo, a causa dell’opposizione della Santa Sede. I primi 2 vescovi di Poznan furono tedeschi.

Sotto il figlio di Miecislao, il duca Boleslao I l’intrepido, l’imperatore Ottone III, in accordo col Papa Silvestro II, fondò a Gniezno un’arcidiocesi nazionale polacca, sulla tomba di S. Adalberto di Praga.; le furono sottomesse le diocesi slave che nel frattempo erano state istituite: Kolberg, Breslavia, Cracovia e più tardi anche Poznan.

Ottone III conferì a Boleslao I la dignità di rappresentante dell’imperatore ed egli aumentò sensibilmente il suo territorio in guerre con l’impero tedesco, con la Boemia, con la Moravia e la Russia: in segno della raggiunta indipendenza della Germania, assunse anche il titolo di re.

Dopo la morte di Boleslao I, seguì una forte ripresa pagana; solo sotto Casimiro I, con l’aiuto dei tedeschi, venne ripristinato il cristianesimo e tutto l’ordinamento ecclesiastico.

 

Gli Ungari o Magiari, popolo mongolico di guerrieri a cavallo, penetrarono nel territorio degli Avari, lungo il Danubio; le chiese vennero distrutte e molti paesi  dell’Europa centrale vennero devastati.

Una prima volta vennero respinti da Enrico I presso il fiume Unstrut, ma il loro impeto selvaggio fu respinto definitivamente da Ottone I presso il fiume Lech, vicino ad Augusta: tutto il regno lo aiutò in questa guerra. Il vescovo Udalrico difese coraggiosamente la città minacciata.

Gli Ungari si abituarono lentamente alla vita tranquilla e sedentaria; anche la conversione al cristianesimo avvenne lentamente.

Tra essi lavorò il monaco svevo Volfango, che poi divenne vescovo di Ratisbona.

Il vescovo Piligrim di Passavia inviò altri chierici e monaci e andò egli stesso in Ungheria, per incrementare la missione; mediante bolle papali falsificate, cercò (ma senza risultato) di far riconoscere Passavia come arcidiocesi, separandola da Salisburgo.

Il cristianesimo incrementò con il duca Geisa, che, nelle trattative di pace con Ottone II, dovette lasciare campo libero ai missionari: egli stesso, la cui moglie Adelaide (sorella del duca Miecislao di Polonia) era cristiana, ricevette il battesimo insieme al figlio Wajk.

Quest’ultimo, principe col nome di Stefano I il Santo, sposato con Gisela, sorella di Enrico II, fondò lo stato nazionale ungherese cristiano. Si fece incoronare re degli Ungheresi e si prodigò molto per la diffusione del cristianesimo, fondando anche monasteri e diocesi. La capitale Strigonia divenne la sede metropolitana, indipendente dalla chiesa germanica.

Dopo la sua morte, ci fu una ribellione pagana, che però fu domata.

 

La parte principale del mondo slavo fu guadagnata al cristianesimo dalla chiesa greca, per cui ci fu uno stretto rapporto politico e culturale con Bisanzio.

I Serbi, i confinanti dei Croati verso oriente, si convertirono all’inizio del VII secolo, sotto l’imperatore Eraclio, ma quando si staccarono dal regno greco, nel IX secolo, ripristinarono il paganesimo; sotto Basilio I ritornarono sotto il dominio greco e alla religione cristiana.

Presso i Cazari, nella Crimea e nel basso Don, operò il missionario greco Costantino (detto Cirillo), insieme a suo fratello Metodio: il primo era presbitero e filosofo a Costantinopoli, l’altro era monaco e abate nel monastero presso Cizico. Dietro richiesta del principe Ratislao, che per motivi politici si era rivolto a Costantinopoli, gli “apostoli degli Slavi” furono mandati dall’imperatore Michele III e dal patriarca Fozio nella Moravia, dove finora avevano lavorato missionari bavaro-franchi. Questi 2 missionari sono importanti perché tradussero nella lingua slava, il cosiddetto slavo ecclesiastico (un dialetto macedone-bulgaro) la Bibbia e i testi liturgici (secondo il rito romano). A questo scopo Costantino creò anche una scrittura slava che si accostava alla greca (la scrittura cirillica).

Dopo alcuni anni di lavoro, i missionari si recarono a Roma, perché invitati dal Papa Niccolò I, a cui presentarono una relazione; Costantino morì poco dopo, in un monastero di Roma.

Metodio fu nominato arcivescovo della Pannonia e legato pontificio; ritornò nella sua terra di missione e continuò con successo il suo lavoro. Fu però molto perseguitato dall’arcivescovo di Salisburgo, che considerava la Pannonia come sua zona d’influenza. Metodio fu destituito durante un sinodo e fu tenuto rinchiuso in un monastero per 2 anni e mezzo.

Anche la sua ortodossia fu messa più volte in discussione; soprattutto era accusato per il fatto che la liturgia doveva essere in lingua greca o latina. Dopo lunghe trattative, tuttavia, il Papa Giovanni VIII permise la liturgia slava.

Dopo la morte di Metodio, Stefano V la proibì di nuovo; i suoi seguaci dovettero abbandonare la Moravia.

 

Presso i Bulgari lavorarono molti sacerdoti greci. Il principe Boris si fece battezzare col nome del suo padrino, l’imperatore Michele; costrinse anche il suo popolo ad accettare il cristianesimo e represse con la forza la resistenza pagana.

Preoccupato per la sua indipendenza politica, si rivolse presto all’occidente. Dietro sua richiesta, il Papa Niccolò I inviò 2 legati, i vescovi Formoso di Porto e Paolo di Populonia; l’imperatore Ludovico il Germanico mandò il vescovo Ermanrico di Passavia, insieme a parecchi chierici.

Il Papa rispose anche alle 100 domande rivoltegli da Boris.

Mentre i tedeschi dovettero rientrare, i legati papali lavorarono con molto successo; ma, per il fatto che il Papa non aveva accolto il suo desiderio di nominare Formoso patriarca per la Bulgaria, Boris si riavvicinò alla chiesa greca. Da allora il suo paese rimase unito al patriarcato di Costantinopoli.

Sede dell’arcidiocesi bulgara divenne Ocrida. Tra il X e l’XI secolo, la Bulgaria perdette la sua indipendenza e divenne una provincia greca. Assunse la lingua ecclesiastica slava (come la Moravia) e il rito greco-bizantino (come presso i Serbi e i Russi).

 

Lo stato dei Russi deve la sua esistenza all’attività dei Vichinghi scandinavi o Varegi (= uomini legati da un giuramento di fedeltà), della stirpe di Rus, che si stabilirono nel IX secolo nella zona dell’Ucraina. Il loro regno si ingrandì rapidamente e il centro divenne Kiev. I patriarchi Fozio e Ignazio si occuparono molto della conversione di questi barbari.

Alcuni nobili divennero cristiani; Olga, la vedova del granduca Igor, si fece battezzare con il nome di Elena, insieme al nipote Vladimiro (venerato come santo), mentre il figlio Sviatoslav rimaneva ancora pagano. Vladimiro fece rimuovere tutti i vecchi idoli e il popolo venne battezzato in massa, senza alcuna preparazione; tuttavia, resti di paganesimo si mantennero a lungo.

Il figlio di Vladimiro Jaroslao consolidò ed organizzò la chiesa nazionale russa, che nelle istituzioni giuridiche, nel rito e nei costumi assunse il carattere greco-orientale. Kiev divenne la sede metropolitana, in continua dipendenza dal patriarcato di Costantinopoli.

 

 

L’INVASIONE DEGLI ARABI IN OCCIDENTE

 

La trasmigrazione arabica, cioè l’invasione dell’Islam in occidente, non si fermò nelle zone cristiane dell’Africa: sotto la guida di Tarik le schiere arabe attraversarono lo stretto di Gibilterra e sconfissero nel 711 il re dei Visigoti spagnoli Rodrigo; il regno della Spagna cadde, tranne le zone del nord.

I fanatici musulmani valicarono i Pirenei, invasero la Francia e si spinsero fino alla Loira; ma Carlo Martello li sconfisse a Poitiers e così salvò la Francia e la sua cultura cristiana. I re cristiani Alfonso I e Carlo Magno ricacciarono gli arabi in Spagna e conquistarono alcuni territori spagnoli.

Nel X secolo il califfato di Cordova raggiunse grande splendore: vi fiorirono cultura e scienza. La sete di conquista dei Saraceni rimase per un lungo tempo un grave pericolo per l’occidente.

Un’altra ondata di invasione si ebbe sul Mediterraneo, dove gli arabi strapparono la Sicilia all’Impero Romano d’Oriente e compirono crudeli spedizioni piratesche sulle coste della Francia e dell’Italia.

La rovina peggiore, però, si ebbe in Spagna, dove gli antichi abitanti furono presto chiamati Mozarabi (cristiani arabizzati): essi avevano libertà di culto, ma molti si lasciarono indurre ad abbracciare l’islamismo, in vista dei molti vantaggi che ne derivavano.

Sui cristiani perseveranti si riversarono gravi tribolazioni: la persecuzione più lunga e violenta si ebbe nell’850, quando alcuni cristiani si erano lasciati andare ad oltraggi verso il profeta Maometto, cosa che era punita con la pena di morte.

Vi fu anche un movimento fanatico che cercava il martirio: l’arcivescovo di Toledo Eulogio e il suo amico Alvaro favorirono questo movimento. Quando però il primo subì il martirio, subentrò lentamente una certa calma.

 

 

L’ORIGINE DELLO STATO PONTIFICIO

 

Già da parecchio tempo i Papi possedevano un vasto patrimonio fondiario in Italia e nelle isole adiacenti, il cosiddetto Patrimonium S. Petri. Ne erano entrati in possesso un po’ alla volta, in seguito a donazioni e lasciti. Il Papa Gregorio Magno si era acquistato molti meriti nella buona amministrazione di questo patrimonio.

In questa situazione, i Papi potevano assumere un atteggiamento più o meno indipendente anche nei confronti dell’imperatore d’Oriente e venivano ad essere il capo naturale del popolo italiano nelle guerre e nelle difficoltà del tempo. Così fecero in modo particolare Gregorio II e Gregorio III.

Ma quando parliamo di Stato Pontificio, dobbiamo pensare subito ai Franchi, perché essi furono i paladini della difesa della Chiesa.

Nelle difficoltà in cui Roma venne a trovarsi a causa dei Longobardi, Gregorio III cercò aiuto presso Carlo Martello, maggiordomo franco, disposto ad affidargli la protezione di Roma, ma egli non accolse l’invito, perché i Longobardi gli servivano nella lotta contro i Saraceni. I Longobardi erano chiamati cinocefali (teste di cane), perché avevano fatto atrocità.

Il successore di Gregorio, Zaccaria, un greco dell’Italia meridionale, riuscì a stipulare una pace ventennale con il re dei Longobardi Liutprando: i Longobardi si erano messi d’accordo con l’esarca di Ravenna, chiamato anche lui Zaccaria, per scendere verso Roma e assediare il Papa (con un movimento a forbice); ma Zaccaria arrivò alcuni giorni prima e fu aggredito dal popolo di Roma, per cui dovette rifugiarsi proprio dal Papa (sotto il letto); quando arrivò Liutprando, si accorse che il popolo amava il Papa e non poteva assediarlo, così si accordò. Il Papa era ormai il padrone effettivo del potere civile nel ducato romano, cioè nella città di Roma e nel suo territorio (Campania, Marittima e Tuscia).

Liutprando è sepolto a Pavia (capitale dei Longobardi), nella chiesa di S. Pietro in Cieldoro. Ci sono anche le ossa di S. Agostino (che lui comprò dai vandali) e del filosofo Severino.

Il Papa Zaccaria aveva una grande diplomazia: è sotto questo Papa che vennero intrecciate le relazioni tra lo Stato Pontificio, che andava costituendosi, e i Franchi.

I figli di Carlo Martello erano Carlomanno e Pipino: erano maggiordomi dei Franchi, ma la nobiltà del sangue non apparteneva ai carolingi.

Carlomanno, seguendo l’esempio di parecchi re anglosassoni, abdicò per farsi chierico e monaco in Italia; suo fratello Pipino il Breve, uomo intelligente e ambizioso, si prese tutto il potere sui Franchi (infatti, prima uno aveva in mano il governo e l’altro portava la corona: c’era il sovrano che era nobile di sangue ma non aveva il potere e c’era Pipino che era il contrario). Egli era favorevole alla Chiesa e aveva uno spirito religioso; mandò a Roma 2 legati per trattare con il Papa. Infatti, temeva di essere deposto se faceva un colpo di stato e così chiese aiuto al Pontefice. Quest’ultimo stabilì Pipino come re, per non turbare l’ordine. Nacque così lo sposalizio tra il Papato e il potere franco.

Nel 751 Pipino si fece eleggere re, ricevendo da alcuni vescovi di Francia l’unzione regia, sul modello dei re dell’Antico Testamento.

Pipino ebbe presto occasione di prestare i suoi buoni servizi al Papa. Il re dei Longobardi Astolfo usurpò il potere del fratello Rachis (il quale indossò il saio monacale) ed instaurò la primitiva politica di conquista: strappò ai Greci Ravenna e minacciava Roma. Il Papa Stefano II, abbandonato dall’imperatore Costantino V, chiese aiuto ai Franchi. Andò egli stesso nel palazzo reale e Pipino lo ricevette con tutti gli onori, giurandogli protezione contro i Longobardi. Il re non era mosso solo da motivi politici, ma anche religiosi, per la sua venerazione nei confronti di S. Pietro e del suo successore sulla cattedra di Roma. Il Papa lo consacrò di nuovo, conferendogli il titolo onorifico di Patricius Romanorum, titolo che prima aveva portato l’esarca di Ravenna e il duca di Roma.

Dopo lunghe trattative, fu stipulata un’alleanza difensiva ed offensiva tra il Papa e il re: in un documento del 754 furono fissati gli obblighi assunti da Pipino, nonostante l’opposizione di molti Franchi. In 2 spedizioni Pipino sconfisse Astolfo e consegnò alla Sede Apostolica il territorio conquistato “iure proelii” (cioè come diritto di preda). Così lo Stato Pontificio era saldamente fondato.

Molto probabilmente nel tempo in cui lo Stato Pontificio si veniva formando, sorse il cosiddetto Constitutum o Donatio Constantini, una delle falsificazioni medievali che ebbero le maggiori conseguenze: secondo questo documento, l’imperatore Costantino Magno, in segno di riconoscenza per il conferimento del battesimo e per la guarigione dalla lebbra, avrebbe concesso al Papa Silvestro e ai suoi successori potere e dignità imperiale, dandogli il palazzo lateranense e il dominio su Roma e su tutti i territori dell’Italia e delle regioni d’Occidente, trasferendo per questo motivo la sua residenza a Bisanzio. Questo documento compare nel suo testo integro in un’altra grande falsificazione, le Decretali pseudoisidoriane.

Dopo la morte di Astolfo, fu eletto re dei Longobardi il duca Desiderio di Tuscia (era il padre di Ermengarda, di cui scrisse Manzoni); al Papa Stefano II succedette il diacono romano Paolo I, che si mantenne fedele all’alleanza con i Franchi.

Desiderio, nella lotta con il suo rivale Rachis, che ora aspirava di nuovo alla corona, si guadagnò l’appoggio di Roma, grazie a concessioni territoriali; all’inizio queste concessioni vennero adempiute solo in parte, ma erano comunque un modo per avere diritto di pretesa su altri territori.

Alla morte del Papa Paolo I, la nobiltà romana si intromise nell’elezione del nuovo Papa e provocò gravi disordini: il duca Toto di Nepi impose con la forza la nomina di suo fratello Costantino, ancora laico, ma il Papa illegittimo fu cacciato dopo 13 mesi; allora i Longobardi, col cui aiuto l’intruso era stato allontanato, innalzarono il monaco Filippo, anch’egli in modo illegittimo. Finalmente si arrivò all’elezione del presbitero Stefano III.

Il sinodo lateranense del 769 regolò l’elezione dei Papi: si proibì l’elezione di un laico come cosa contraria all’usanza ecclesiastica e si soppresse il diritto dei laici di partecipare alla nomina.

 

 

CARLO MAGNO E LA CHIESA

 

Con Carlo Magno, il potente figlio di Pipino, sorse per i Franchi e per tutto l’Occidente un sovrano d’importanza secolare: egli seppe fondere le forze nazionali dei Germani con le antiche istituzioni romane e l’ideologia cristiana, creando un grandioso Imperium Christianum.

Con grande decisione egli abbracciò fin dall’inizio la missione di diffondere ovunque la fede e la cultura cristiana, e la realizzò con grande vantaggio dei popoli. E’ ricorso anche alla violenza e alla costrizione, ma questo corrispondeva alla mentalità del tempo.

Egli assoggettò con la forza della spada i Sassoni e li costrinse ad abbracciare il cristianesimo; convertì i Frisi, i Danesi, i Vendi, gli Avari, i Moravi e i Boemi. Vennero istituite molte sedi vescovili e parrocchie, si sviluppò l’organizzazione metropolitana.

Gli stava particolarmente a cuore la formazione e il miglioramento religioso e morale del clero, nonché l’educazione del popolo. A questo fine ordinò l’istituzione di scuole accanto alle cattedrali, ai monasteri e alle chiese parrocchiali; il clero fu invitato all’esercizio zelante della cura delle anime, mentre i laici vennero educati a santificare le feste e a frequentare le funzioni, imponendo ad ognuno di conoscere a memoria il Padre nostro e il Credo.

Rifiorirono anche le scienze ecclesiastiche e l’arte sacra.

La politica italiana di Carlo Magno in un primo momento non era rispondente ai desideri del Papa e agli interessi dello Stato Pontificio: con grande disappunto di Papa Stefano III si giunse a un’intesa tra Franchi e Longobardi, per il matrimonio di Carlo con una figlia del re Desiderio. Però, dopo 1 anno Carlo ripudiò la principessa longobarda e seguì una politica favorevole a Roma.

Divenne Papa Adriano I e, quando il re Desiderio mosse verso Roma, egli chiese aiuto ai Franchi, che intervennero di nuovo. Venne conquistata Pavia, la capitale dei Longobardi, e così si pose fine al loro regno. Il territorio fu annesso alla Francia e Carlo rinnovò al Papa la donazione di Pipino, concedendo quella parte di esarcato che Desiderio aveva promesso, cioè le città di Imola, Bologna e Ferrara.

Al posto del dominio bizantino subentrava sempre più quello franco; anche il dominio dell’imperatore bizantino sullo Stato Pontificio cominciò a scomparire: il Papa fece coniare la moneta con la sua effige e il suo nome e incominciò a datare i documenti secondo gli anni del suo pontificato.

Carlo si chiamò re dei Franchi e dei Longobardi e cercò di guadagnare un influsso sempre maggiore anche su Roma e sullo Stato Pontificio.

Il Papa Leone III annunziò subito la sua elezione a Carlo e gli mandò le chiavi della tomba di S. Pietro, insieme al vessillo della città di Roma.

Egli fu accusato di spergiuro dai nipoti del suo predecessore Adriano, a causa della sua precedente condotta; quindi, la sua elezione non era canonica. Si recò allora da Carlo in cerca di aiuto. Questi lo fece riaccompagnare a Roma con tutti gli onori e andò di persona per porre termine alle controversie. Fedele al principio che la Sede Apostolica non può essere giudicata da nessuno, il sinodo che si riunì a Roma sotto la presidenza di Carlo si astenne da un giudizio: con solenne giuramento, il Papa discolpò se stesso dalle gravi accuse di immoralità e di spergiuro che gli erano state mosse e i suoi nemici furono condannati a morte da Carlo, sentenza che fu poi commutata in esilio per intercessione del Papa.

Leone III incoronò Carlo imperatore romano e, seguendo il cerimoniale bizantino, gli tributò inginocchiato l’adoratio. Così nell’800 nasceva ufficialmente il Sacro Romano Impero, come fu successivamente chiamato.

La corona imperiale non aumentò il potere esterno del re dei Franchi, ma agli occhi dei popoli gli conferì un’autorità morale e politica molto maggiore, oltre che una straordinaria dignità religiosa, su cui si basa il suo diritto e dovere di proteggere il Papato e la Chiesa contro i nemici interni ed esterni e di collaborare alla diffusione del regno di Dio, con mezzi pacifici o anche con la guerra (se necessario).

Il Papa, supremo capo spirituale, e l’imperatore, supremo capo temporale, dovevano lavorare in stretta unione ed armonia, per il bene terreno ed eterno dell’umanità: infatti, si concepiva l’impero come un regno dell’ordine morale e spirituale, in cui si abbracciano la pace e la giustizia.

Il connubio Imperium e Sacerdotium fu messo per iscritto nella Costitutio Romana dell’anno 824: all’imperatore spettava la giurisdizione suprema e il controllo del governo papale, mentre al Papa restava l’esercizio del potere giudiziario ed amministrativo; inoltre, l’elezione del papa doveva essere fatta liberamente dai romani, conformemente alle prescrizioni canoniche, anche se all’imperatore fu riservato il diritto di cooperare alla nomina dei Papi, diritto che si concretò nella conferma dell’elezione del Papa. Il candidato eletto veniva consacrato solo dopo aver prestato giuramento di fedeltà all’imperatore, mentre al Papa spettava il diritto di incoronare e consacrare gli imperatori. I primi 2 imperatori, Ludovico il Pio e Lotario ribevettero la corona dal loro padre, ma poi fecero ripetere la cerimonia religiosa dal Papa.

 

 

LA DECADENZA DEL REGNO CAROLINGIO

 

La decadenza del regno carolingio iniziò con Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno ma da lui molto diverso, di temperamento bonario e di spirito debole ed incerto. Egli era in continue liti con i suoi figli: Lotario, Pipino e Ludovico il Germanico (nati dal primo matrimonio) e Carlo il Calvo (nato dal secondo matrimonio). Ciò provocò la divisione del regno (comprendente Germania, Francia, Borgogna e Italia) in 3 parti, nel trattato di Verdun dell’843:

  1. regno franco-orientale à Ludovico il Germanico

  2. regno franco-occidentale à Carlo II il Calvo

  3. regno franco-centrale e Italia (Lotaringia) à Lotario I

Nel trattato di Meersen dell’870, Ludovico il Germanico e Carlo II il Calvo si spartirono il regno di Lorena, appartenente al loro nipote Lotario II, morto nell’869. Così si arrivò alla divisione del regno dei Franchi a nord delle Alpi in 2 metà: una germanica e una latina, cioè tedesca e francese.

Il Papato venne acquistando perciò una maggiore indipendenza rispetto al dominio dei Franchi, tanto più che molti vescovi franchi appoggiavano le richieste del Pontefice e dichiaravano il potere spirituale superiore a quello temporale. Però, più l’impero perdeva importanza e più al papato venivano a mancare quegli aiuti necessari per far fronte ai molti signori locali in Italia, che volevano comandare in maniera assoluta sui loro territori; inoltre, a peggiorare la situazione, si aggiunsero le invasioni dei Normanni e dei Saraceni.

Nell’846 i Saraceni, dall’Italia meridionale e dalla Sicilia, si spinsero fino a Roma, saccheggiando le basiliche di S. Pietro e S. Paolo; il Papa Leone IV cinse il Vaticano di mura, fondando così la cosiddetta Città Leonina, cioè il quartiere transtibertino di Roma. Nell’850 Leone unse imperatore il figlio maggiore di Lotario, Ludovico II, incoronandolo re d’Italia.

Dopo la morte di Leone, un partito imperiale di Roma cercò di far nominare Papa l’ambizioso cardinale presbitero Anastasio Bibliotecario, ma questi non poté riuscire contro Benedetto III, legittimamente eletto.

Secondo la leggenda della papessa Giovanna, la Sede Apostolica (tra Leone IV e Benedetto III) sarebbe stata occupata per 2 anni e 7 mesi da una giovane donna di Magonza o d’Inghilterra, la quale avrebbe prima compiuto i suoi studi ad Atene in abiti maschili (Joannes Anglicus); da Papa sarebbe stata scoperta ingannatrice, a causa di un parto occorsole durante una processione. L’origine di questa favola non è ben chiara; probabilmente la fantasia popolare prese l’occasione:

-         da un’antica iscrizione o statua male interpretata (un sacerdote di Mitra, con i piccoli servitori, Giunone con il figlio Ercole, o qualcosa di simile);

-         oppure dall’antica leggenda di una vergine monaca in un monastero di uomini;

-         oppure dal ricordo delle scostumate donne che, nel corso del X secolo, dominarono il Papato.

A Benedetto III successe Niccolò I, un Papa importantissimo, definito un “secondo Elia, che comandava re e tiranni”. Egli fu un grande uomo di governo, il cui fine principale fu quello di perseguire la libertà e l’indipendenza della Chiesa, con l’elevazione e il consolidamento del papato.

Si servì come segretario di Anastasio Bibliotecario, che prima era stato un antipapa.

In Italia dovette intervenire contro la tirannia e l’insubordinazione di Giovanni arcivescovo di Ravenna, che era appoggiato dall’imperatore Ludovico II: lo costrinse a sottomettersi in un sinodo romano.

In Francia giunse a un conflitto con Incmaro arcivescovo di Reims e consigliere politico di Carlo II, che aveva deposto in un sinodo il vescovo Rotadio di Sassonia, il quale si appellò a Roma: il Papa ordinò il suo riinsediamento in diocesi, appellandosi alle Decretali Pseudo-Isidoriane. Queste Decretali sono la più importante falsificazione di argomento canonistico, sorta nel IX secolo per appoggiare le richieste del partito della riforma in Francia. La loro patria è probabilmente l’arcidiocesi di Reims. Il loro ignoto autore (forse si tratta di un gruppo di autori) si chiama Isidorius Mercator e venne scambiato con Isidoro di Siviglia. Lo Pseudo-Isidoro dichiara di voler raccogliere sistematicamente tutto il materiale canonistico disperso, per preparare la via ad un miglioramento della gerarchia ecclesiastica e del popolo cristiano. La raccolta contiene numerose falsificazioni, il cui scopo principale è quello di assicurare i vescovi contro i soprusi dei principi secolari; perciò, c’è l’elevazione del potere del Papa, a cui soltanto è riservato il diritto, prima esercitato dai re franchi, di convocare e confermare sinodi: i vescovi accusati possono appellare a lui e le leggi statali, in opposizione con i canoni o i decreti del Papa, sono nulle. Lo Pseudo-Isidoro contribuì all’aumento del potere del Papa, perché la raccolta si diffuse rapidamente e venne considerata come autentica. I dubbi arrivarono intorno al XV secolo. Proprio a queste Decretali si appellò il Papa Niccolò I.

Egli sorse in difesa del diritto matrimoniale cristiano contro il re di Lotaringia Lotario II, il secondo figlio di Lotario I. Questi voleva ripudiare la moglie Tietberga, che era senza figli, e prendere come sua legittima consorte la concubina Valdrada; i vescovi del suo regno gli opposero lunga resistenza e il Papa intervenne in favore della regina, deponendo 2 arcivescovi complici del re e scomunicando Lotario: con la scomunica, però, i fedeli erano sciolti dal vincolo di fedeltà al re, così Lotario II si sottomise al Papa e riprese Tietberga. Ma la sua passione non era spenta e la vicenda si protrasse anche sotto il pontificato di Adriano II, concludendosi solo con la morte di Lotario.

La lotta più dura il Papa Niccolò I la dovette sostenere con Costantinopoli, a causa delle controversie tra i patriarchi Ignazio e Fozio e i loro rispettivi partiti.

Con i successori di Niccolò I il papato cadde presto dall’altezza raggiunta.

Papa Giovanni VIII non riuscì a dominare le difficoltà della situazione in Oriente e in Occidente. Per ben 2 volte ebbe occasione di conferire la corona imperiale:

  • dopo la morte di Ludovico II a Carlo II il Calvo di Francia, nonostante ne avesse più diritto il fratello maggiore Ludovico il Germanico;

  • dopo la morte di Carlo II a Carlo III il Grosso di Svevia, figlio minore di Ludovico il Germanico.

Da questo tempo in poi, il Papa è l’unico autorizzato a nominare gli imperatori: l’importanza dell’elezione o dell’acclamazione del popolo romano è solo secondaria.

Purtroppo nessuno dei 2 imperatori fu un valido appoggio per il Papa nelle lotte e nelle situazioni difficili a causa dei nobili italiani e dei Saraceni, ai quali il Pontefice dovette persino pagare un tributo annuo.

L’imperatore Carlo III riunì sotto il suo scettro tutta la monarchia carolingia, ad eccezione della Borgogna inferiore, ma venne deposto per la sua incapacità nella lotta contro i Normanni.

Allora il regno di Carlo Magno si divise definitivamente in 2 parti:

  1. Germania (il re fu il duca Arnolfo di Corinzia, figlio illegittimo di Carlomagno e fratello di Carlo III);

  2. Francia;

  3. Borgogna superiore;

  4. Borgogna inferiore;

  5. Italia.

Sembra che Giovanni VIII sia stato ucciso da un suo parente avido di ricchezze; gli successero: Marino I, Adriano III e Stefano V.

Il marchese Berengario del Friuli e il duca Guido di Spoleto, entrambi di origine franca (falsi carolingi), si contendevano la signoria d’Italia; vinse Guido e il Papa Stefano V dovette incoronarlo imperatore.

Successivamente, il Papa Formoso, già vescovo di Porto, incoronò Lamberto, figlio di Guido.

La pressione intollerabile degli Spoletani (detti cattivi cristiani) indusse Papa Formoso a chiamare in aiuto il re di Germania Arnolfo, il quale conquistò Roma e ricevette la corona imperiale; colpito però da paralisi, non fu in grado di imporre il dominio germanico in Italia. A lui successe il figlio Ludovico il Fanciullo, di appena 7 anni.

Papa Formoso dovette scontare a caro prezzo l’incoronazione del “Barbaro nordico”. Il suo successore Bonifacio VI regnò solo 2 settimane.

Il nuovo Papa Stefano VI, che aveva fatto carriera grazie agli Spoletani e perciò era nemico dei Franchi, fece esumare il cadavere di Formoso e in un sinodo tenne un macabro giudizio su di esso: dichiarò illegittimo il pontificato di Formoso, perché per ambizione aveva cambiato la sua sede vescovile in un’altra (da Porto era andato a Roma), cosa che era proibita dai vecchi sinodi; perciò, dichiarò nulle le ordinazioni da lui conferite.

Però, in un’insurrezione, Papa Stefano fu imprigionato e fu eletto il presbitero Romano.

I Papi Teodoro II e Giovanni IX vollero riparare l’oltraggio fatto a Formoso e annullarono gli atti del sinodo; fu stabilito che la consacrazione del Papa, eletto dai vescovi e dal clero romano con l’approvazione del senato e del popolo, doveva aver luogo alla presenza di legati imperiali.

 

 

IL SECOLO OSCURO

 

Il X secolo viene definito il secolo oscuro:

-         secondo alcuni perché ci sono poche fonti storiche;

-         secondo altri perché i Papi venivano subito deposti.

Ci fu una decadenza spaventosa di ogni ordinamento statale e della cultura, specialmente in Italia e in Francia. Violenza e terrore dominarono quasi ovunque.

Ci furono continue incursioni di Normanni, Saraceni e Ungari, che andavano saccheggiando innumerevoli città e monasteri, devastando intere regioni.

I patrimoni delle chiese e delle abbazie andavano a finire in gran parte nelle mani della nobiltà. Le diocesi della Francia diventarono spesso vere chiese private dei grandi, destinate ad essere vendute, donate o ereditate come beni di famiglia. Non rari furono i vescovi e gli abati laici.

Tra il basso e l’alto clero regnavano l’indifferenza verso i doveri dello stato ecclesiastico, l’ignoranza, l’avidità, la ricerca dei piaceri, la simonia.

In Italia, in mezzo alle feroci lotte di partito, il papato, privato della protezione dell’imperatore, decadde nella più completa impotenza e divenne lo zimbello delle famiglie nobili di Roma, le quali, senza alcun riguardo alla dignità, mettevano sulla cattedra di S. Pietro i loro familiari o i loro favoriti.

Tuttavia, la Germania iniziava a risollevarsi da quella situazione di anarchia in cui era caduta dopo il tramonto della dinastia carolingia, arrivando anche a migliorare la situazione ecclesiastica: questo per opera dei valenti principi della casa sassone. Fu proprio il rinnovato regno germanico a portare aiuto al papato, così profondamente umiliato.

Dopo l’improvvisa morte del giovane imperatore Lamberto, il Papa Benedetto IV incoronò imperatore Ludovico III della Borgogna inferiore (Arles e Provenza), che però non poté affermarsi a lungo contro il marchese Berengario del Friuli, il quale aspirava al predominio esclusivo in Italia.

I Papi Leone V e Cristoforo morirono in carcere dopo breve governo.

Il Papa Sergio III dovette la sua elezione a un potente partito nobiliare romano, alla testa del quale stavano il senatore Teofilatto e sua moglie Teodora, con le figlie Marozia e Teodora junior: queste donne, intelligentissime ma scostumate, esercitarono nei decenni successivi un influsso decisivo sulle sorti di Roma e del papato; è esagerato però definire questo periodo come pornocrazia (la fonte principale per la storia di questo periodo è data dalle notizie del vescovo Liutprando di cremona, che però devono essere usate con cautela, data la parzialità dell’autore e il suo gusto per i particolari scandalistici).

Dopo i pontificati insignificanti di Anastasio III e di Lando, fu eletto l’arcivescovo di Ravenna col nome di Giovanni X, per influsso della senatrice Teodora senior. Nel 915 egli incoronò imperatore Berengario del Friuli. Inoltre, realizzò una coalizione tra i principi italiani e Bisanzio, per la lotta contro i Saraceni, e riportò una vittoria presso Gaeta, guidando egli stesso le truppe romane, insieme a Teofilatto. Anche all’interno il governo di Giovanni X fu forte. Alla fine, però, soggiacque al secondo marito di Marozia, Guido di Tuscia, e morì in carcere.

Dopo Leone VI e Stefano VII, la senatrice Marozia innalzò al pontificato il figlio Giovanni (nato forse da una relazione col Papa Sergio III), col nome di Giovanni XI: ciò le consentiva di dominare attraverso il Papa. Diventata nuovamente vedova, sposò il re Ugo di Provenza e d’Italia, sperando forse nella corona imperiale; ma il giorno delle nozze, il suo giovane figlio Alberico di Spoleto, avuto dalle prime nozze con il conte Alberico di Camerino e Spoleto, scatenò una ribellione dei romani contro lo straniero presuntuoso e lo cacciò.

Alberico stesso governò a Roma e nello Stato della Chiesa per 22 anni da senatore, ma comportandosi quasi come un monarca. Limitò il fratellastro Papa Giovanni XI all’esclusivo esercizio delle funzioni spirituali. Lo stesso accadde con i 4 successori nominati per opera sua: Leone VII, Stefano VIII, Marino II e Agapito II. Questi erano uomini degni e si adoperarono per il miglioramento della vita monastica a Roma e nei dintorni.

Sul letto di morte, Alberico fece giurare ai romani che avrebbero eletto Papa il suo figlio ed erede Ottaviano, cosa che avvenne nel 955. Col nome di Giovanni XII, il giovane principe, una persona notoriamente indegna, riunì di nuovo in una sola mano il potere spirituale e secolare di Roma; fu il primo a cambiare nome nella nomina a Papa (quest’usanza divenne regola alla fine del X secolo).

Nel frattempo si andava preparando un profondo cambiamento nella situazione politica in Italia. Dopo un lungo periodo di debolezza, il regno tedesco era in grado di estendere verso il sud la sua potenza e di far valere i suoi diritti sulla corona dell’impero romano.

Enrico I e il figlio Ottone I il Grande, della casa di Sassonia, lavorarono con successo alla rinascita della Germania: all’esterno il regno fu ampliato con una politica coloniale e missionaria; all’interno del regno si formò un forte potere centrale nelle mani del re, grazie all’aiuto di vescovi e abati che, con l’investitura di beni dello Stato e di pubblici diritti, divennero principi del regno.

Sotto gli imperatori sassoni, nell’episcopato tedesco ci furono uomini egregi, che adempirono in modo esemplare i loro doveri di pastori e di principi, come:

-         Bruno, fratello di Ottone I, arcivescovo di Colonia e duca di Lorena, consigliere e aiutante dell’imperatore nella fondazione e nel governo del regno;

-         Udalrico di Augusta;

-         Corrado e Gebardo di Costanza;

-         Adalberto di Praga;

-         Gottardo di Hildesheim;

-         Burcardo di Worms.

Per l’opera di questi uomini, la Chiesa di Germania venne riportata ad un alto grado di moralità e di prosperità economica.

Dopo la morte del re d’Italia Lotario II, figlio di Ugo, si offrì ad Ottone I l’occasione di intervenire nelle faccende d’Italia, sfasate sia dal punto di vista politico che ecclesiastico: il marchese Berengario II di Ivrea, nipote dell’imperatore Berengario, che era già da prima il reale padrone, si fece incoronare re d’Italia, insieme a suo figlio Adalberto; la vedova di Lotario, Adelaide di Borgogna, si oppose alle pretese di Adalberto e Berengario II la imprigionò, ma ella riuscì a fuggire e chiese aiuto ad Ottone.

Questi nel 951 passò le Alpi e a Pavia si fece proclamare re d’Italia, sposando Adelaide.

Ottone progettò di andare a Roma per l’incoronazione imperiale, ma gli fu impedito da Alberico di Spoleto, il principe che allora dominava a Roma. Berengario riebbe come feudo germanico il regno d’Italia (senza Verona-Friuli, che passò alla Baviera).

Nella sua seconda spedizione in Italia, Ottone pose fine al suo dominio. L’occasione gliela offrì il Papa Giovanni XII, figlio di Alberico, uomo di vita frivola e con interessi mondani, che, nella brama di ingrandire lo Stato Pontificio, era entrato in conflitto con Berengario; sconfitto da quest’ultimo, si rivolse al re di Germania, offrendogli la corona imperiale.

Nel 962 Ottone fu incoronato imperatore, dopo aver giurato al Papa sicurezza e difesa dei territori e dei diritti della Chiesa romana: si rinnovò così l’impero germanico di Carlo Magno, anche se di potenza inferiore, mancando il regno di Francia. Sorse il cosiddetto sacro romano impero della nazione tedesca. Nel celebre Pactum o anche Privilegium Ottonianum, Ottone riconfermò alla Chiesa di Roma le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, ripristinando la supremazia imperiale secondo la costituzione dell’824: giuramento di fedeltà da parte del Papa canonicamente eletto (prima della consacrazione), giurisdizione suprema e controllo dell’imperatore sopra i funzionari papali.

Dopo la partenza di Ottone, Giovanni XII, trasgredendo la promessa, si alleò con Berengario, con suo figlio Adalberto e con altri nemici dell’imperatore. Nel 963 Ottone tornò a Roma, fece giurare ai romani che in futuro non avrebbero eletto nessun Papa senza il suo consenso e fece deporre Giovanni con gravi accuse, forse esagerate (omicidio, spergiuro, sacrilegio, simonia); al suo posto fu eletto Leone VIII, prima tesoriere papale ed ancora laico, il quale in 1 giorno ricevette tutti gli ordini sacri. Questa procedura, però, non corrispondeva al principio giuridico in base al quale il Papa non poteva essere giudicato da nessuno, per cui il fatto non trovò un riconoscimento unanime.

Quando Ottone lasciò Roma, Giovanni allontanò Leone VIII e tenne un sinodo per conto suo: Leone fu scomunicato come usurpatore e le sue ordinazioni furono dichiarate invalide. Giovanni si vendicò dei suoi avversari, ma poco dopo morì.

I romani elessero Papa il cardinale diacono Benedetto V, una persona degna, ma Ottone venne una seconda volta a Roma, ripristinò Leone VIII e mandò Benedetto in esilio ad Amburgo, dove morì. Secondo una falsificazione del tempo, Leone VIII avrebbe conferito all’imperatore, mediante una bolla, il diritto di occupare tutte le sedi vescovili, compresa quella di Roma.

Dopo la morte di Leone VIII, venne eletto Giovanni XIII, in intesa con l’imperatore: egli però fu fatto presto prigioniero, in seguito ad un’insurrezione della nobiltà romana; gli riuscì di fuggire e poté tornare sul trono papale con l’aiuto dei suoi parenti.

Ottone tornò per la terza volta a Roma, per ristabilire l’ordine con grande severità: sotto la sua protezione, il Papa poté continuare il suo ufficio e incoronò il giovane Ottone II a socio nell’impero.

Il Papa e l’imperatore tennero 2 sinodi a Ravenna e fu eretta l’arcidiocesi di Magdeburgo, base di lancio per l’evangelizzazione dell’est. Inoltre, l’imperatore restituì al governo pontificio Ravenna e il suo territorio, l’Esarcato, ripristinando lo Stato Pontificio nel suo antico ambito.

Quando Ottone I morì, sotto il Papa Benedetto VI si rinnovarono a Roma i disordini: a capo della nobiltà c’era la famiglia dei Crescenzi, che tenne per 40 anni una posizione dominante a Roma. Sotto la guida di Crescenzio, figlio di Teodora junior, Benedetto VI fu deposto e gettato in carcere (dove fu poi strangolato) e fu eletto l’ambizioso cardinale diacono Bonifacio Franco col nome di Bonifacio VII, uomo molto cattivo e perciò chiamato Malefazio. Dopo sole 6 settimane, egli fu cacciato da un messo imperiale e fuggì a Costantinopoli, con i tesori rubati nella chiesa di S. Pietro. Crescenzio morì monaco in un monastero romano.

Sotto la protezione di Ottone II, il seguente pontificato di Benedetto VII ebbe un corso tranquillo.

Il progetto dell’imperatore di cacciare gli Arabi dalle Puglie e dalla Calabria, per instaurarvi il suo dominio, naufragò in seguito ad una terribile sconfitta presso Cotrone, dove Ottone II morì a soli 28 anni (fu sepolto a S. Pietro). Poco prima, per sua iniziativa, era stato eletto Papa Giovanni XIV; ma Bonifacio VII, tornato da Costantinopoli, si impossessò di nuovo della Sede Apostolica, lasciando morire di fame a Castel S. Angelo il suo avversario Giovanni. Anch’egli però trovò la morte improvvisamente e il suo cadavere fu profanato dal popolo indignato.

Durante il pontificato di Giovanni XV, il potere temporale a Roma era nelle mani di Crescenzio II il Nomentano, che non si dimostrò ostile quando l’imperatrice Teofano visitò Roma, in qualità di reggente per il figlio minorenne Ottone III. Crescenzio riconosceva la supremazia germanica ma ebbe un dominio tirannico, per cui il Papa invocò l’aiuto di Ottone III, ormai maggiorenne.

Nel 996 l’imperatore scese in Italia e, siccome morì Giovanni XV, i romani rimisero al giovane sovrano la designazione del successore: così salirono al trono pontificio il primo tedesco e il primo francese.

Il primo eletto fu il 24enne Gregorio V, cappellano della corte regale e pronipote di Ottone I, che incoronò Ottone III imperatore; appena però quest’ultimo partì, Crescenzio Fomentano, che era stato graziato su preghiera del Papa, usurpò nuovamente il potere, cacciò Gregorio e nominò antipapa Filagato, che prese in nome di Giovanni XVI. Ottone, con un forte esercito, ricondusse il Papa tedesco e tenne un tremendo giudizio: Giovanni XVI fu mutilato, accecato e rinchiuso in monastero; Crescenzio ed altri ribelli furono decapitati a Castel S. Angelo.

Per volere di Ottone, salì sulla cattedra di Pietro Silvestro II (Papa dell’anno 1000), già arcivescovo di Ravenna, maestro e consigliere intimo dell’imperatore.

Ottone III, religiosissimo (aveva come amici S. Romualdo di Ravenna e S. Adalberto da Praga), aveva come ideale il ripristino dell’impero romano, concepito come un regno cristiano, una federazione di nazioni con uguali diritti, con sede centrale a Roma. Insieme al Papa, allora, istituì l’arcidiocesi di Gniezno per la Polonia e collaborò alla fondazione della metropoli di Strigonia per l’Ungheria.

Però, la sua politica universalistica finì miseramente. Una sommossa dei romani lo obbligò a fuggire da Roma con Papa Silvestro: poco dopo morirono entrambi.

Siccome gli imperatori germanici rimasero per qualche tempo lontani da Roma, i Papi seguenti caddero di nuovo sotto l’opprimente dipendenza dalla nobiltà romana: il potere passò alla famiglia dei Tuscolani. Furono eletti Papa 3 membri di questa famiglia, tutti laici.

Il primo fu Benedetto VIII, nominato contro il candidato dei Crescenzi, Gregorio: entrambi si rivolsero al re tedesco Enrico II il Santo per il riconoscimento, il quale si decise per Benedetto; dietro suo invito venne a Roma e nel 1014 ricevette la corona imperiale.

Questo Papa, nonostante i suoi interessi profani e mondani, non fu insensibile ai suoi compiti ecclesiastici: combatté con successo contro i Saraceni e intervenne in difesa dei canoni ecclesiastici contro il matrimonio del clero e il dilapidamento dei beni della Chiesa.

A benedetto VIII succedette il fratello col nome di Giovanni XIX, persona molto meno degna, che giunse al suo scopo mediante l’impiego di forti somme di denaro. Egli incoronò imperatore Corrado II, il primo sovrano della casa di Franconia o Salica.

Corrado era un uomo intelligente e si rese molto benemerito nel consolidare il regno di Germania; ma non ebbe sensibilità per le esigenze della riforma ecclesiastica: fece largo uso di simonia per conferire vescovadi e abbazie e nulla intraprese per migliorare la situazione indegna di Roma.

Dopo la morte di Giovanni XIX, fu eletto con scandalosi intrighi il nipote 18enne, col nome di Benedetto IX, che superò in depravazione lo stesso Giovanni XII. La sua condotta indegna suscitò una rivoluzione e al suo posto venne eletto, non senza corruzione, Silvestro III.

Dopo 7 settimane, Benedetto lo cacciò, ma fu costretto dai romani a cedere la dignità pontificia al suo padrino di battesimo, eletto col nome di Gregorio VI. Egli era un uomo pio e molto stimato, ma il suo modo di agire apparve scandaloso e fu necessaria una nuova nomina.

Questa ci fu con l’intervento del re germanico Enrico III, uno dei migliori sovrani tedeschi, profondamente religioso e sinceramente devoto alla Chiesa, il quale era molto vicino allo spirito della riforma cluniacense e lo appoggiò con molto zelo.

Nel 1046 venne a Roma per consolidare l’impero in Italia e porre fine allo scisma papale: in un sinodo furono deposti sia Silvestro III (accettò la deposizione e fu rinchiuso in un monastero) che Gregorio VI (fece un documento di autodeposizione e fu esiliato a Colonia); in un secondo sinodo si pronunciò la condanna di deposizione anche per Benedetto IX.

Il clero e il popolo elessero, su proposta di Enrico, Clemente II, già vescovo di Bamberga, con cui inizia la serie dei Papi tedeschi, detti “riformatori”; egli impose subito la corona imperiale ad Enrico III e alla sua consorte Agnese. I romani conferirono ad Enrico anche il diritto di designare il candidato nelle prossime vacanze della sede papale, diritto che egli esercitò più volte senza contraddizione.

In questo modo, l’impero romano germanico raggiunse una pienezza di poteri, che supera anche quella dei tempi di Carlo Magno.

 

 

LA CULTURA E LA SCIENZA ECCLESIASTICA IN OCCIDENTE

 

I Germani dovettero subire una lunga opera di formazione e di educazione prima di poter esplicare un’attività produttiva in campo scientifico e culturale; il lavoro principale lo svolsero i monasteri, per cui la cultura del medioevo ha un carattere prevalentemente ecclesiastico (la lingua usata era il latino).

L’organizzazione dell’insegnamento era simile a quella dell’epoca tardo romana: dopo i primi rudimenti, seguivano le 7 arti liberali, suddivise in 2 sezioni:

§         il Trivium, cioè le 3 materie linguistiche (grammatica, retorica, dialettica);

§         il Quadrivium, cioè le 4 discipline matematiche (aritmetica, geometria, astronomia, musica);

L’insegnamento teologico mirava alla comprensione della Sacra Scrittura e all’acquisto delle nozioni necessarie per il ministero pastorale (i chierici dovevano conoscere il simbolo apostolico e quello Atanasiano, il Padre nostro, il Sacramentario, il Legionario, il canone della Messa, il Penitenziario, il calcolo delle feste ecclesiastiche, le omelie dei Padri quale modello per la predica e il canto ecclesiastico). Purtroppo, non si diede abbastanza peso alla formazione spirituale ed ascetica vera e propria del clero; inoltre, non tutti i chierici potevano compiere gli studi nelle scuole cattedrali, abbaziali o monastiche, e più tardi nelle università.

 

I primi frutti della produzione teologico-scientifica si riscontrano in Inghilterra:

-         notissima è la storia della Chiesa e del popolo anglo-sassone del pio monaco Beda il Venerabile;

-         il dotto più illustre è Alcuino di Northumbria, capo della scuola cattedrale di York;

-         il re Alfredo il Grande, fondatore della monarchia inglese, rinnovò chiese, abbazie e scuole, traducendo egli stesso in anglosassone gli scritti di Boezio e di Orosio e la celebre Regola pastorale di Gregorio Magno.

Ricordiamo inoltre:

-         Aelfrik, abate di Egusham;

-         Reginone, abate di Prum;

-         Flodoardo, storico di Reims;

-         Gerberto d’Aurillac, più tardi Papa Silvestro II;

-         Rosvita del monastero di Gandersheim;

-         Widukindo, monaco.

 

Nel regno dei Franchi la prima rinascita culturale fiorì sotto Carlo Magno, che, accanto ad una sete personale di cultura, esplicò una magnifica attività per il miglioramento culturale di clero e popolo (egli non sapeva leggere e scrivere, ma aveva sotto il cuscino la Bibbia e un’opera di S. Agostino e se le faceva leggere); ordinò che i preti ignoranti fossero sospesi e, se non miglioravano, dovevano essere deposti, perché diceva che quelli che non conoscono la legge di Dio non possono annunziarla ad altri.

Tutte le chiese episcopali e le abbazie dovevano aprire scuole, destinate a preparare per la vita sacerdotale e monacale, anche se poi furono utili anche per molti altri. I sacerdoti, prima di essere ordinati, dovevano essere esaminati circa il loro grado di cultura.

In alcuni monasteri esistevano:

-         Schola interior à per i giovani monaci;

-         Schola exterior à per il clero secolare e i laici.

Carlo Magno chiamò alla sua corte molti studiosi, poeti e artisti delle varie nazioni, soprattutto di Inghilterra e Italia; il suo fido consigliere e il suo ministro dell’istruzione fu Alcuino di York, che scrisse un’opera sui fondamenti della fede cristiana. Abbiamo poi:

-         il longobardo Paolo Diacono, monaco di Montecassino (era alla corte di carlo Magno perché egli aveva assoggettato i Longobardi);

-         Pietro da Pisa e Paolino di Aquileia;

-         il poeta Teodolfo;

-         il geniale Eginardo, che scrisse la vita di Carlo sul modello di Svetonio.

Le più illustri scuole dell’impero furono:

·        la scuola palatina, destinata alla formazione degli alti funzionari dello stato e dei dignitari ecclesiastici;

·        la scuola superiore di scienze religiose di Tours, che servì di modello per istituzioni analoghe in molte altre abbazie.

Protagonisti del movimento spirituale del tempo furono:

-         Godescalco monaco di Fulda,

-         gli arcivescovi Agobardo di Lione e Incmaro di Reims,

-         Pascasio Radberto, abate di Corbie, e Ratramno, monaco nella stessa abbazia;

-         Rabano Mauro, abate di Fulda, arcivescovo di Magonza e discepolo di Alcuino;

-         Ilduino, discepolo di Alcuino;

-         Aimone, vescovo di Halbertstadt;

-         Amalario, corepiscopo di Metz;

-         Valfredo Stradone, discepolo di Rabano Mauro;

-         Severo Lupo, abate di Ferrières;

-         Adone, arcivescovo di Vienne;

-         Anastasio Bibliotecario, bibliotecario della Chiesa Romana, antipapa e segretario di Niccolò I;

-         Giovanni Scoto (non va confuso con Duns Scoto) o Eriugena, irlandese e direttore della scuola palatina.

 

In Germania si può parlare di un rinascimento ottonico.

Bruno, fratello di Ottone il Grande, arcivescovo di Colonia, coltivò con zelo le 7 arti liberali.

Tra i monasteri emerge San Gallo.

Notchero il Balbo è noto come poeta e compositore di inni o prose che si accompagnano all’Alleluja.

 

In Italia abbiamo:

-         Liutprando, vescovo di Cremona e grande storico;

-         Attone, vescovo di Vercelli e teologo zelante;

-         Raterio, vescovo di Verona e di Liegi;

-         Umberto, prima monaco e poi cardinale e consigliere fidato di Papa Leone IX;

-         Pier Damiani di Ravenna e amico di Umberto.

 

In Francia fu celebre la scuola di Chartres, per merito del dotto Fulberto.

Sorse la corrente dei dialettici, che assegnavano alla speculazione razionale un influsso più forte sulla teologia, sopravvalutandola a spese della fede; il più notevole fu Berengario, canonico e scolastico a Tours, mentre il suo avversario principale fu Lanfranco di Pavia, priore e direttore dell’abbazia di Bec nella Normandia, poi arcivescovo di Canterbury (siamo agli inizi della Scolastica).

 

 

DISPUTE TEOLOGICHE, ERESIE E SCISMI

 

L’alto medioevo è in genere un’epoca di fede sicura, indiscussa; tuttavia, ci furono delle controversie.

 

Il Filioque, cioè la formula introdotta in occidente nel Credo nel V secolo per la processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, venne introdotta anche in Francia: il patriarca Paolino di Aquileia la difese in un sinodo, Carlo Magno fece cantare il Credo col Filioque nella sua cappella di corte, i monaci franchi lo usavano anche sul Monte degli Ulivi presso Gerusalemme (anche se per questo furono considerati eretici dai Greci).

Pur riconoscendo tale formula come ortodossa, il Papa Leone III, per riguardo ai Greci, ne disapprovò l’uso nel Credo e consigliò ai Franchi di togliere nuovamente l’aggiunta, ma essi non eseguirono il suo desiderio. Più tardi l’aggiunta venne accolta anche dalla Chiesa romana (forse da Papa Benedetto VIII su consiglio dell’imperatore Enrico II).

 

In Spagna si sviluppò l’eresia cristologica dell’adozionismo, una specie di ripercussione del nestorianesimo: un certo Migezio di Siviglia spiegò la Trinità alla maniera di Sabellio, insegnando una triplice manifestazione di Dio in Davide (Padre), in Cristo (Figlio) e in Paolo (Spirito Santo); gli si oppose Elipando, arcivescovo di Toledo, affermando che il Logos era figlio naturale di Dio, ma Cristo uomo era solo figlio adottivo; Felice, vescovo di Urgel, approvò subito Elipando, mentre l’abate Beato di Libana e il vescovo Eterio di Osma impugnarono il nuovo nestorianesimo con il consenso di Papa Adriano I. Carlo Magno fece approfondire la questione in alcuni sinodi e l’adozionismo fu respinto.

 

Anche la questione della predestinazione divenne argomento di accesa discussione teologica: l’occasione fu offerta dal monaco sassone Godescalco, che da fanciullo era stato un oblato dell’abbazia di Fulda, ma fuggì prima di ricevere gli ordini maggiori, e poi, su richiesta del suo abate Rabano Mauro, fu costretto di nuovo allo stato monastico dall’imperatore Lodovico; assegnato presso il monastero di Orbais, si dedicò allo studio delle opere di S. Agostino e concepì la predestinazione in senso strettamente agostiniano, come un decreto eterno e immutabile di Dio, accettando la volontà salvifica di Dio soltanto particolare; parlò di una doppia predestinazione, alla morte e alla vita, negando però una predestinazione al male e spiegando la predestinazione alla morte con la prescienza di Dio.

Rabano Mauro impugnò come inammissibile la predestinazione alla morte e 2 sinodi condannarono Godescalco come eretico: privato della dignità sacerdotale, venne flagellato e consegnato ad un monastero presso Reims per una prigionia a vita; qui morì, ridotto in uno stato di ottenebrazione mentale.

Molti dotti francesi si schierarono a favore di lui, fra cui il monaco Ratramno di Corbie, per cui la disputa si allargò. Nel sinodo di Toucy dell’860 si arrivò ad un compromesso fra i 2 partiti e ad una pace: lo scritto sinodale parla della volontà salvifica universale di Dio, mentre la questione della predestinazione alla morte viene sorvolata.

 

Quasi contemporaneamente si accese la controversia circa l’Eucaristia.

L’antichità cristiana aveva trasmesso 2 spiegazioni del mistero eucaristico:

-         Quella realistico-metabolica di s. Ambrogio, che parla di un vero cambiamento del pane e del vino nel Corpo e Sangue del Signore;

-         quella dinamico-spiritualista di s. Agostino, che sottolineava più la modalità (senza negare la transustanziazione).

Il monaco esegeta Pascasio Radberto, poi abate di Corbie, insegnava che nell’Eucaristia sono contenuti realmente la Carne e il Sangue di Gesù, però egli accentuò troppo l’identità del Cristo storico e del Cristo eucaristico, facendo risaltare poco la diversità del modo di essere presente (la sua sembrava una concezione corporale, cafarnaitica).

Rabano Mauro accentuò, invece, che il corpo vero e quello eucaristico sono identici solo natuliter (nella sostanza) e non specialiter (nel modo d’essere presente).

Il monaco Ratramno di Corbie accentuò ancora di più questa differenza: egli negò addirittura un cambiamento della sostanza del pane ed ammise solo una presenza spirituale-simbolica di Cristo nel Sacramento.

A volte si fece sentire anche l’opinione che l’Eucaristia sottostava come tutti gli altri cibi alle conseguenze della digestione: quest’idea venne bollata come stercoranismo.

Berengario di Tour accentuò la dottrina eucaristica agostiniano-ratramnica fino ad un simbolismo spiritualistico, cioè negò la presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo nell’Eucaristia (solo il fedele riceve la forza nel Sacramento).

Scoppiò, allora, un’aspra lotta tra i teologi. Nel sinodo lateranense del 1059 Berengario, chiamato a discolparsi, accettò per paura la formula che gli fu proposta, che diceva che Gesù Cristo è veramente presente in modo sensibile (per non dire materiale e cadere in una concezione cafarnaitica), non solo nel Sacramento ma anche nelle mani del sacerdote. Però, 10 anni dopo la ritrattò. Allora, il Papa Gregorio VII lo fece venire nuovamente a Roma, dove dovette ritrattare e sottoscrivere una nuova professione in cui si parlava di trasformazione sostanziale; tornato in patria, Berengario morì riconciliato con la Chiesa, ma il suo errore continuò a propagarsi silenziosamente.

 

Durante tutto questo periodo, la chiesa greca andò per vie sue proprie, staccandosi sempre più dall’occidente: chiusa in un forte tradizionalismo, rimase legata all’antichità cristiana.

Con un carattere decisamente nazionale e statale, il sistema del cesaropapismo portò la chiesa bizantina alla perdita della sua indipendenza e dignità: l’imperatore veniva celebrato come il rappresentante di Dio sulla terra.

Il più grande teologo della chiesa greca di questo periodo è Giovanni Damasceno, l’ultimo dei Padri greci: originario di una famiglia cristiana di Damasco, detentrice ereditaria di un alto ufficio dello stato maomettano (forse l’amministrazione delle tasse in Siria), nel 715 lasciò questo ufficio e si ritirò nel monastero di S. Saba presso Gerusalemme, per condurvi vita contemplativa; qui morì nel 749.

Dei suoi numerosi scritti, i principali sono quelli che servirono alla difesa del culto delle immagini sacre, gli inni e il suo capolavoro in 3 parti, la Fonte della conoscenza: quest’opera comprende un’introduzione filosofica, una storia delle eresie e un’esposizione del dogma cristiano, basata sui Padri e sulle decisioni dei concili.

La lotta agli iconoclasti fu guidata da Niceforo, patriarca di Costantinopoli, e da Teodoro Studita, l’abate asceta del monastero di Studios di Costantinopoli.

Però, il primo posto per importanza va a Fozio, l’ambizioso patriarca di Costantinopoli, che si distinse per una brillante intelligenza e per una eccezionale cultura (filologia, letteratura, esegesi biblica, dogmatica, canonistica).

Il principale rappresentante dell’agiografia bizantina è Simeone Metafraste, maestro a Costantinopoli.

Simeone il nuovo teologo, educato nel monastero di Studios e abate nel monastero di Mamas a Costantinopoli, è il maggiore mistico greco e profondo poeta: canta il risplendere della luce divina interiore nell’uomo santificato dalla grazia; con il suo indirizzo panteisticizzante, preparò il quietismo degli Esitasti (=i riposanti), che ebbe forte diffusione e energici avversari, specialmente nei monasteri di Costantinopoli, sul monte Athos (qui vi è una repubblica monastica di 5 monasteri grandi e di 16 piccoli, esistente ancora oggi) e sul monte Sinai.

Come esegeti sono da ricordare:

-         Areta, arcivescovo di Cesarea in Cappadocia;

-         Teofilatto, arcivescovo di Acrida;

-         Eutimio Zigabeno, monaco a Costantinopoli.

La cultura del clero greco in questo periodo non era molto superiore a quella occidentale: il sinodo di Nicea del 787 esigeva dal candidato all’ufficio episcopale la conoscenza completa (a memoria) del salterio, dei sacri canoni e del Vangelo.

 

Nell’Asia minore orientale ci fu la setta dei pauliciani (tenevano in particolare venerazione s. Paolo); la loro dottrina è banalmente dualista e derivata in tutto dai Manichei o dai Marcioniti: distinguevano il Creatore e Signore di questo mondo dal Dio celeste; ripudiavano le funzioni ecclesiastiche e i sacramenti, nonché la venerazione dei santi, delle reliquie e delle immagini sacre. Gli imperatori greci intervennero di tanto in tanto contro la setta e mandarono al supplizio i più tenaci.

Dai pauliciani derivò la setta dei bogomili (=amici di Dio), che professava un Dio buono e uno cattivo, ripudiava il battesimo e l’eucaristia, dichiarava di origine diabolica le immagini sacre e l’adorazione della croce, condannava il matrimonio e l’uso delle carni. Era sorta all’inizio del X secolo in Bulgaria.

 

Il culto delle immagini sacre era profondamente radicato nella chiesa greca; incrementato dai monaci, capi spirituali del popolo, era diventato parte integrante della religione.

L’iconoclastia fu aperta dall’imperatore Leone III detto l’Isaurico (=il Siro), uomo che si era acquistato dei meriti nella difesa di Costantinopoli contro gli attacchi degli Arabi. Nel 726, egli dispose con un editto l’allontanamento o il coprimento delle immagini sacre.

Non era solo la proibizione della Scrittura di avere immagini sacre che lo spingeva a quest’azione, ma anche un certo riguardo verso i pauliciani, i maomettani e gli ebrei, tutti ostili alle immagini; inoltre, egli voleva sottomettere la Chiesa al suo potere, specialmente i monaci, per essere nel suo regno imperatore e sommo sacerdote.

Difensore del culto delle immagini fu il monaco Giovanni Damasceno.

L’editto suscitò subito grande agitazione e persino delle sommosse popolari, ma l’imperatore non rifuggì dall’uso della forza: depose il patriarca di Costantinopoli Germano, che era favorevole alle immagini sacre, e lo sostituì con Anastasio, a lui più docile. Con il consenso di costui, Leone III emanò un nuovo editto, che ordinava la distruzione di tutte le immagini.

L’opposizione ebbe maggior successo in occidente, dove il Papa Gregorio II ammonì l’imperatore a desistere dalla lotta iconoclasta e lo diffidò dall’intromettersi in questioni dogmatiche, la cui decisione competeva soltanto ai vescovi.

Il suo successore, Gregorio III, tenne un sinodo a Roma e colpì con la scomunica la distruzione, la profanazione e il disprezzo delle immagini sacre.

Le minacce dell’imperatore scaraventarono in Italia viva indignazione: mancò poco che il paese si staccasse del tutto dal dominio bizantino.

Ma Leone si vendicò fortemente del Papa: confiscò gli ingenti patrimoni che la Chiesa possedeva nell’Italia meridionale e in Sicilia e incorporò tutti questi territori al patriarcato di Costantinopoli, staccandoli dalla giurisdizione di Roma.

Questi motivi di discordia furono una delle ragioni che spinsero i Papi ad allearsi con i Franchi e contribuirono, poi, a far tramontare il dominio bizantino nell’Italia centrale e settentrionale.

La lotta iconoclasta divenne ancora più feroce sotto il figlio di Leone Costantino V Copronimo: egli soppresse l’insurrezione di suo cognato Artabasdo, sostenitore delle immagini sacre, e convocò a Costantinopoli un sinodo che si definì ecumenico, anche se non vi prese parte nessun patriarca (la sede di Costantinopoli era vacante); per desiderio dell’imperatore, venne sancita l’iconoclastia e il culto delle immagini fu dichiarato opera di satana e nuova idolatria, mentre i suoi difensori (l’ex patriarca Germano e Giovanni Damasceno) furono colpiti con l’anatema; tutti i vescovi dell’impero lo dovettero approvare per iscritto.

Ovunque le immagini sacre furono allontanate dalle chiese, spesso distrutte le pitture murali, coperti d’intonaco i mosaici e sostituiti con rappresentazioni profane (alberi ed uccelli).

I monaci furono i soli che ebbero il coraggio di opporsi al brutale dispotismo: per questo furono perseguitati con barbara crudeltà. A nulla valse il fatto che i patriarchi di Antiochia e di Gerusalemme si pronunziarono favorevoli alle immagini e che il Papa Stefano III colpì con la scomunica il sinodo sull’iconoclastia.

Il figlio e successore di Costantino, Leone IV Khazaras, si mostrò un po’ più mite, ma le disposizioni iconoclaste rimasero in vigore.

Un cambiamento decisivo si ebbe quando l’imperatrice Irene, dopo la morte del marito, assunse la reggenza per il figlio minorenne Costantino VI: per instaurare la pace nella Chiesa, ella promosse un concilio veramente ecumenico (il 7°), in accordo con Papa Adriano I, che mandò 2 legati; il concilio ebbe luogo a Nicea (II) nel 787, mentre l’ultima sessione ebbe luogo a Costantinopoli alla presenza di Irene e di suo figlio. Con la presenza di circa 350 vescovi, venne ripudiato il sinodo sull’iconoclastia e venne dichiarato che si poteva e si doveva tributare un culto di devota venerazione (con lampade, incenso e prostrazione) alla santa croce, alle immagini di Cristo, della Madonna, degli Angeli e dei Santi: questa venerazione è diretta alla persona rappresentata, mentre l’adorazione vera e propria spetta solo a Dio.

In occidente il Papa si adoperò per far riconoscere il sinodo di Nicea anche nel regno dei Franchi, ma incontrò una forte opposizione da parte di Carlo Magno, in quanto si fraintendeva la differenza fra venerazione e adorazione, scambiando addirittura i 2 termini; Carlo non era disposto a riconoscere come obbligatoria per tutta la Chiesa una decisione conciliare alla quale la chiesa dei Franchi non aveva collaborato, per cui fece riesaminare dai suoi teologi gli atti di Nicea e l’atteggiamento dei greci, facendone redigere una severa critica nello scritto I Libri Carolini, in cui si ripudiavano sia il sinodo sull’iconoclastia (che dichiarava le immagini idoli) che quello adoratore delle immagini (che tributava ad esse venerazione e adorazione). Carlo tenne allora un sinodo generale dei Franchi a Francoforte, concilio che, sotto la sua presidenza e con l’approvazione dei legati pontifici, ripudiò ancora una volta le decisioni di Nicea.

Anche in oriente venne messa in dubbio la validità dei decreti niceni: l’imperatore Leone V l’Armeno, pensando che il culto delle immagini fosse la causa delle sconfitte riportare dai suoi predecessori nella lotta contro i maomettani, rinnovò l’iconoclastia e ristabilì i decreti contro le immagini, mentre il patriarca Niceforo fu costretto ad abdicare e ad andare in esilio.

Il dotto abate di Studios Teodoro, irremovibile fra persecuzioni, maltrattamenti, flagellazioni ed esilio, si oppose all’imperatore e si appellò al Papa contro le sue decisioni. La persecuzione colpì ancora con violenza i monaci e durò quasi 30 anni.

Fu ancora una donna a portare il cambiamento: l’imperatrice Teodora, che in segreto era stata sempre fedele al culto delle immagini, in qualità di reggente per il figlio minorenne Michele III, in un sinodo di Costantinopoli rimise in vigore il culto delle immagini, con l’aiuto del patriarca Metodio; a perenne ricordo dell’avvenimento, fu istituita la grande festa dell’ortodossia, che si celebra la I domenica di Quaresima.

 

Nella 2a metà del IX secolo dure lotte colpirono ancora la chiesa greca: l’occasione venne offerta da una nomina controversa del nuovo titolare della sede vescovile di Bisanzio, occupata dal patriarca Ignazio, figlio dell’imperatore Michele II, che prima era stato monaco, persona pia ma politicamente un conservatore radicale. Oltre alcuni vescovi, egli aveva come nemico politico Cesare Barda, zio dell’imperatore Michele III l’Ubriaco, il quale dominava completamente il giovane nipote dopo che questi fu dichiarato maggiorenne e la madre Teodora allontanata dal governo. Nell’Epifania dell’858, Ignazio rifiutò pubblicamente la comunione a Barda, a causa della sua vita immorale (in realtà l’accusa non era del tutto giusta); per questo fatto e per il suo atteggiamento politico, fu costretto ad abdicare e al suo posto fu nominato Fozio, amico dell’apostolo degli Slavi Cirillo: essendo ancora laico, in 5 giorni ricevette tutti gli ordini sacri, compresa la consacrazione episcopale, che gli fu conferita dall’arcivescovo di Siracusa Gregorio Asbesta, il quale era stato scomunicato da Ignazio.

Gli avversari di Fozio si radunarono nella chiesa di s. Irene e lo dichiararono usurpatore del patriarcato, per cui venne deposto e scomunicato.

I seguaci di Fozio convocarono un sinodo e lanciarono la scomunica e la deposizione contro i seguaci di Ignazio e contro egli stesso, qualora avesse voluto riprendere il suo posto come patriarca.

Così, le opposizioni politiche condussero ad una profonda divisione nella chiesa bizantina.

L’imperatore Michele III invitò il Papa ad inviare legati per un concilio che doveva pronunciare un giudizio definitivo sulla questione delle immagini; contemporaneamente, Fozio partecipò al papa la notizia della sua nomina: al Papa Niccolò I non sfuggirono i difetti della nomina di Fozio (nomina di un laico e consacrazione da parte dell’arcivescovo Gregorio, la cui posizione non era ancora stata decisa da Roma), come anche il fatto che la sede era occupata da Ignazio. Per un esame della situazione, il Papa mandò in oriente 2 legati e sollecitò la restituzione dei diritti e dei possedimenti che l’imperatore Leone III aveva confiscato alla Chiesa di Roma. I legati, però, oltrepassarono le loro facoltà e pronunciarono la sentenza che il Papa si era riservata: riconfermarono la deposizione di Ignazio, il quale dichiarava invalida la sua abdicazione e si rifiutava di riconoscere i legati quali suoi giudici. I suoi fautori inviarono a Roma un rapporto, in seguito al quale il Papa decretò che i legati erano destituiti dal loro ufficio e che Fozio era privato di ogni dignità ecclesiastica; infine, venne ordinato il ripristino di Ignazio.

All’inizio, però, questa sentenza non ebbe alcun effetto pratico, perché Fozio era appoggiato dalla corte: l’imperatore Michele arrivò addirittura al punto di chiedere il ritiro della disposizione. Contro di lui, Papa Niccolò I difese i diritti della Sede Apostolica, ma si dichiarò pronto a riesaminare ancora una volta a Roma tutta la vertenza circa Ignazio e Fozio.

Poco dopo i Bulgari vennero annessi alla Chiesa di Roma: questo fatto sollevò gravi malumori a Bisanzio e Fozio passò ad una lotta aperta contro Roma; in un’enciclica agli altri 3 patriarchi d’Oriente, egli sollevò gravi accuse contro l’invadenza dei missionari romani in Bulgaria e contro la disciplina occidentale ivi introdotta (il digiuno del sabato, l’uso dei latticini nella I settimana di Quaresima, il celibato ecclesiastico e il non riconoscimento della cresima amministrata dai preti greci). Combatté anche come eresia la dottrina occidentale circa la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, senza però nominare come tale l’aggiunta del Filioque nel Credo, aggiunta che allora non era ancora comune nella liturgia romana. La stessa enciclica convocava i patriarchi a un grande sinodo a Costantinopoli, per pronunciare un giudizio sul Papa: il sinodo ebbe luogo nell’867 alla presenza della corte e, contro ogni diritto, scomunicò e depose quale “eretico e devastatore della vigna del Signore” il Papa Niccolò I, il quale morì prima ancora di essere informato di questa decisione.

La rottura era ormai consumata.

Il trionfo di Fozio fu, però, di breve durata: Basilio I il Macedone, dopo aver assassinato Michele, si impadronì di tutto il governo e costrinse Fozio ad abdicare, ripristinò Ignazio e riprese le relazioni con Roma. A seguito della decisione di Papa Adriano II, si celebrò l’8° concilio ecumenico a Costantinopoli: Fozio fu condannato e scomunicato e gli ecclesiastici ordinati da lui furono ridotti allo stato laicale. Ma Fozio e i suoi fautori non si sottomisero.

Siccome i Bulgari vennero annessi di nuovo al patriarcato di Costantinopoli, sopravvenne una nuova tensione tra Roma e Bisanzio. Il Papa Giovanni VIII sollecitò Ignazio, con la minaccia di scomunica e di deposizione, a restituire la Bulgaria, ma tutto fu invano.

Dopo la morte di Ignazio, Fozio ritornò sul trono patriarcale di Costantinopoli; infatti, anche durante l’esilio, egli aveva mantenuto i rapporti con i suoi seguaci, s’era riconciliato con Ignazio e s’era riguadagnata la stima dell’imperatore.

Il Papa, che aveva bisogno dell’aiuto bizantino contro i Saraceni, credette di dover tener conto delle mutate situazioni, a patto che Fozio sconfessasse il suo atteggiamento precedente, rinunciasse alla giurisdizione sui Bulgari e si riconciliasse con i seguaci di Ignazio. Muniti di queste istruzioni, i legati partirono per l’oriente.

Nel sinodo di Costantinopoli dell’879, Fozio, che non voleva saperne di ritrattazioni, riuscì a guadagnarsi il favore dei legati e venne riconosciuto come legittimo patriarca; inoltre, fu rinnovato il simbolo niceno-costantinopolitano, condannando ogni omissione ed ogni aggiunta. Per quanto riguarda la Bulgaria, tutto rimase come prima.

Per quanto ciò fosse spiacevole per il Papa, non si giunse però ad una nuova rottura fra Roma e Bisanzio; anche i successori di Papa Giovanni VIII riconobbero Fozio.

Quest’ultimo, però, ebbe ancora un tragico crollo: l’imperatore Leone VI il Filosofo, per antipatia personale e per motivi di politica interna, lo depose e conferì la dignità patriarcale al proprio fratello Stefano, 16enne.

Fozio venne relegato in un monastero, fino alla morte. I Greci ebbero in grande onore la sua memoria: viene onorato come maestro apostolico ed ecumenico e come santo. Alcuni studiosi occidentali riconoscono in Fozio l’animo nobile e l’amore alla Chiesa.

 

 

LO SCISMA GRECO DEL 1054

 

Dopo le controversie foziane, il legame tra la chiesa greca e quella latina non ebbe più una giusta stabilità. Il di stanziamento reciproco era troppo antico e troppo profondo. Anche la diversità della lingua, della teologia, della liturgia e della costituzione ecclesiastica rendeva ormai impossibile un’unità organica tra la cristianità d’oriente e quella d’occidente.

Al contrasto ecclesiastico si unirono gravi differenze politiche: il tramonto del dominio bizantino nell’Italia centrale e settentrionale, l’unione dei Papi con i Franchi e la fondazione dello Stato Pontificio a danno di Bisanzio, l’incoronazione di Carlo Magno e il ripristino dell’impero d’Occidente, acuirono l’ostilità e l’antipatia che i Greci già avevano per i Latini.

I bizantini, inoltre, vedevano le usanze particolari della Chiesa latina come una decadenza dalla tradizione apostolica.

Quindi, lo scisma già esisteva.

Intorno all’anno 1000, sotto il patriarca Sergio II, ci fu una separazione tra le chiese e il nome del Papa venne cancellato dalla lista della preghiera liturgica.

Però il patriarca Eustazio si accostò di nuovo a Roma, per motivi politici; pare che egli si sia adoperato presso il Papa Giovanni XIX affinché la chiesa di Costantinopoli, nella sua circoscrizione, fosse riconosciuta ecumenica, come quella di Roma lo era per tutta la cristianità.

Il suo 2° successore Michele Cerulario nel 1050 ridefinì i Latini come eretici e, per suo ordine, vennero chiuse le chiese latine a Costantinopoli. L’accusa principale era che nella comunione si adoperava pane azzimo: il tesoriere Costantino giunse al punto di dichiarare come non consacrata la santa ostia degli azzimiti, calpestandola con i piedi. Per ordine di Cerulario, l’arcivescovo Leone di Acrida in Bulgaria attaccò gli occidentali con degli scritti, dichiarando che i Latini erano mezzo giudei e mezzo pagani, perché osservavano il precetto degli azzimi e del digiuno sabbatico nella Quaresima, durante la quale omettevano anche l’alleluja, e mangiavano carne di animali soffocati. Più tardi il monaco di Studios Niceta Stethatos attaccò anche la legge del celibato dei Latini. Nessuna parola del Filioque.

L’occidente non poteva rimanere indifferente a queste accuse e, per ordine del Papa Leone IX, assunse il compito di controbatterle il suo segretario e confidente, il cardinale Umberto di Silva Candida, il quale ebbe una parte decisiva nell’ulteriore sviluppo della vicenda. Alla difesa, egli aggiunse l’offensiva: combatté come adulterio ed eresia nicolaita il matrimonio degli ecclesiastici, che era in uso in oriente ed era stato approvato nel 325 a Nicea, e accusò i Greci di macedonianismo, perché aveva tolto dal Credo il Filioque, minacciandoli a più riprese con la scomunica.

All’inizio del 1054, su richiesta dell’imperatore Costantino IX Monomaco, una delegazione pontificia andò a Costantinopoli, composta da Umberto, dall’arcivescovo di Amalfi e dal cancelliere papale (più tardi Papa Stefano IX).

Il patriarca Cerulario si mostrò dispotico e aizzò il popolo contro i Latini; inoltre, vietò ai legati pontifici la celebrazione della Messa, per cui essi ricorsero ai mezzi estremi: sicuri del pieno consenso del Papa, il quale però nel frattempo era morto, deposero sull’altare maggiore della chiesa di s. Sofia, dinanzi al clero e al popolo riuniti, la bolla di scomunica contro il patriarca e i suoi seguaci, redatta da Umberto in termini estremamente aspri. La loro speranza che Cerulario si sottomettesse o venisse deposto fallì; il patriarca lanciò, a sua volta, la scomunica contro i Latini.

Il patriarca di Antiochia Pietro, che giudicava più pacatamente queste controversie, scongiurò il suo collega di Costantinopoli di ripristinare l’unione, ma la rottura rimase e divenne definitiva, in seguito anche alle ostilità sorte tra i Greci e i Franchi in occasione delle crociate.

L’esempio di Costantinopoli fu presto decisivo anche per gli altri patriarcati orientali; anche i popoli convertiti dai Greci e che stavano in stretta unione ecclesiastica con loro (Serbi, Bulgari, Russi e Rumeni) vennero coinvolti nello scisma, che dura ancora oggi e che riempie di profondo dolore il cuore di ogni cristiano.

 

 

COSTITUZIONE, CULTO, DISCIPLINA E COSTUMI

 

Le circoscrizioni vescovili in Francia e nell’oriente ebbero un’estensione molto più grande che non nell’impero romano, dove diocesi e territorio urbano generalmente coincidevano.

L’organizzazione delle parrocchie rurali al di là delle Alpi venne introdotta in questo periodo e, a volte, abbastanza lentamente. Nei territori delle antiche parrocchie matrici, presiedute da arcipreti, furono fondate nuove parrocchie con diritto di fonte battesimale, di decisa e di sepoltura, nonché altre stazioni di cura d’anime.

Un fenomeno provvisorio dell’epoca dell’evangelizzazione furono:

-         i vescovi missionari (regionarii), privi di una sede fissa e di un territorio circoscritto;

-         i vescovi monaci (abati), forniti di giurisdizione vescovile.

Nell’amministrazione delle loro vaste diocesi, i vescovi avevano bisogno d’aiuto, per cui si servirono di corepiscopi, che però con i vescovi rurali della Chiesa antica hanno in comune solo il nome: essi, in qualità di ausiliari del loro vescovo, visitavano i singoli territori, istruivano il clero, controllavano la disciplina e governavano diocesi rimaste vacanti.

Per le mansioni non vescovili, cioè per quelle amministrative e giudiziarie, subentrarono gli arcidiaconi, che a quest’epoca sono spesso sacerdoti 8° volte si chiamano anch’essi corepiscopi). Per la delimitazione degli arcidiaconati era generalmente norma il confine del distretto civile; questi poi si dividevano in sottocircondari, detti arcipreture o decanati.

Il clero del regno franco rimase suddito per qualche tempo al tribunale civile, finché si andò affermando il privilegium fori, favorito dal principio germanico che ognuno poteva vivere secondo il suo diritto e dalla richiesta dello Pseudoisidoro che l’ecclesiastico doveva essere giudicato solo da un ecclesiastico.

In questo periodo venne più volte inculcata la visita pastorale delle diocesi, che già prima il vescovo era solito compiere ogni anno: quest’usanza ottenne nel regno franco un ampliamento e Carlo Magno fece accompagnare il vescovo dal conte del luogo (per proteggerlo ed aiutarlo, ma anche per controllarlo).

Venne istituito il giudizio sinodale, cioè nei singoli paesi si nominarono degli uomini irreprensibili (di solito 7) che erano obbligati con giuramento a denunciare i reati perseguibili di pena: ciò contribuì ad eliminare usanze pagane in Francia, introducendovi costumi cristiani.

Un’importanza speciale ebbero i sinodi:

-         quelli diocesani si svolgevano 1 o 2 volte l’anno;

-         quelli provinciali si svolgevano con minor frequenza.;

-         quelli nazionali erano convocati dal re e i decreti erano promulgati come legge di stato (capitularia).

Fu ripristinata la vita comune degli ecclesiastici, già esistita in passato, ma che nella decadenza dei tempi era scomparsa ovunque. Non si esigeva la rinuncia completa alla proprietà privata, ma ciascuno poteva fruire della propria sostanza ceduta alla collegiata. Quest’istituzione si chiamò vita canonica e quanti vivevano secondo essa erano detti canonici: l’istituzione fu un mezzo eccellente per migliorare lo stato clericale e la cultura religiosa. La vita comune si diffuse presto non solo presso le cattedrali vescovili, ma anche nelle parrocchie maggiori, dove c’erano parecchi sacerdoti: alle chiese vescovili e ai capitoli cattedrali (con a capo il vescovo), si aggiunsero le chiese e i capitoli collegiati (con a capo il prevosto o prelato). C’erano anche le canonichesse.

Il patrimonio ecclesiastico in Francia, a seguito di donazioni e lasciti, s’era lentamente ingrandito e comprendeva quasi 1/3 del territorio nazionale.

Venne fortemente rimpicciolito sotto il prepotente maggiordomo Carlo Martello, che assegnò in usufrutto ai suoi vassalli beni ecclesiastici e monastici.

I figli Carlomanno e Pipino ripararono in parte questa secolarizzazione.

Anche Carlo Magno dispose del patrimonio ecclesiastico come se fosse della corona.

Tuttavia, i possedimenti della Chiesa crebbero sempre più, anche grazie all’introduzione della decima sui raccolti dei campi: la decima era già nota nella Chiesa antica, ma era pagata spontaneamente; poi, un sinodo del 585 l’aveva ordinata con la minaccia di scomunica; Carlo Magno vi aggiunse il peso di una sanzione statale. All’inizio la decima fu destinata per intero alle chiese parrocchiali, poi in parte anche ai vescovi.

Secondo i principi del diritto germanico, gli ecclesiastici non potevano comparire in giudizio, perché era loro proibito portare armi; perciò, in controversie giuridiche, le chiese e i monasteri dovevano avere dei rappresentanti secolari, cioè gli avvocati: Carlo Magno li rese obbligatori per tutti i vescovati e le abbazie. L’avvocato aveva il compito di proteggere il suo istituto dai nemici esterni (anche col duello) ed esercitava la giurisdizione sui sudditi feudali. L’avvocazia divenne poi ereditaria: per i nobili era molto ambita (per i diritti e le entrate connesse), ma per le chiese e i monasteri era un peso opprimente (perché causa di molti abusi).

La mentalità giuridica germanica diede all’organizzazione ecclesiastica una fisionomia particolare, mediante il cosiddetto sistema delle chiese proprie o chiese private: quando un ricco possidente terriero costruiva su un fondo di sua proprietà una chiesa, una cappella o un monastero, dotandoli di beni immobili, egli considerava la chiesa (o la cappella o il monastero) di sua proprietà piena; a questi beni non poteva essere cambiata la destinazione, ma il proprietario poteva venderli, trasmetterli in eredità, donarli; inoltre, poteva nominare il titolare ecclesiastico secondo una sua libera scelta, conferendo l’ufficio come un feudo, poteva dimetterlo o incamerarne l’eredità; durante la sede vacante, poteva incassare le rendite; poteva anche riservare al proprio uso le offerte e le decime dei fedeli.

I Papi proibirono assolutamente che i laici assegnassero uffici ecclesiastici, ma all’inizio la proibizione non riuscì ad imporsi.

In seguito alla stretta unione tra stato e chiesa nel regno dei Franchi, l’alto clero o i prelati (vescovi e abati) raggiunsero presto importanti privilegi politici.

In Germania l’imperatore Ottone I infeudò vescovi e abati con diritti imperiali, beni della corona e diritti di contea, al fine di avere in essi un sicuro appoggio del trono contro le aspirazioni ribelli dei duchi ereditari (sistema ottonico). Vescovi e abati erano spesso dirigenti di alti uffici civili, ministri e diplomatici, a volte anche comandanti di eserciti (erano veri e propri principi territoriali).

Subentrò, ben presto, la nomina da parte del re di vescovi e abati.

L’insediamento nella prelatura e nei diritti sovrani ad essa connessi viene indicata generalmente con il nome di investitura, che aveva luogo nelle forme del diritto feudale germanico: mediante la consegna simbolica da parte del re del pastorale e dell’anello vescovile, che, alla morte del prelato, doveva essere restituiti alla corte regia; l’investito doveva prestare giuramento di fedeltà al sovrano e riconoscersi come suo vassallo. Questa investitura laicale era in opposizione con l’essenza dell’ufficio spirituale e perciò si ebbero conseguenze deplorevoli: i più alti uffici della Chiesa apparivano come chiese proprie del re, il quale ne disponeva in forza del suo diritto sovrano; sembrava che il potere spirituale fosse solo un’emanazione di quello imperiale.

Nella liturgia si andò verso una unificazione: nell’oriente greco si introdusse quella di Costantinopoli, mentre in occidente quella romana.

Generalmente si conservò l’uso di celebrare la liturgia in presenza della comunità e con la partecipazione di essa, ma venne ad aggiungersi anche la Messa privata, a cui doveva assistere almeno un inserviente come rappresentante della comunità: nelle chiese vennero eretti molti altari per il sacrificio eucaristico e da qualche parte ci celebravano più Messe nello stesso giorno (alcuni sinodi prescrissero per la Quaresima e gli altri giorni di digiuno la celebrazione di 3 Messe). Si dovette intervenire spesso contro abusi (si celebravano più Messe), a volte addirittura superstiziosi.

Si svilupparono i paramenti liturgici, introducendo oltre al bianco una varietà di colori.

La comunione frequente era andata in disuso e si prescrisse che i laici si comunicassero almeno 3 volte l’anno (Natale, Pasqua, Pentecoste); fu diffide applicare quest’ordine fra le masse, perché perfino i pii avevano un interesse scarso per l’Eucaristia.

In occidente si usò pane non lievitato al posto di quello lievitato (i Greci definivano i Latini azzimiti e dichiaravano invalida la loro Eucaristia); per evitare profanazioni, al posto del pane spezzato si introdussero piccole particole o ostie: per lo stesso motivo non si diede più il sacro cibo in mano ai fedeli ma direttamente in bocca. Nella chiesa greca divenne comune intingere il pane consacrato nel vino e di porgerli insieme con un cucchiaino.

Una parte importante del culto cristiano era la predica, per cui venne inculcato l’obbligo di annunziare la Parola di Dio: per aiutare i sacerdoti meno colti, furono compilate raccolte di predicabili aderenti al testo della Sacra Scrittura; queste opere erano in latino, mentre la predica avveniva nella lingua volgare. In quasi tutte le comunità si predicava regolarmente nelle domeniche e nelle feste (in latino solo ai chierici e ai monaci).

In Francia si introdusse anche il canto ecclesiastico romano: per l’accompagnamento musicale, era usato l’organo. I monaci iroscozzesi introdussero anche le campane (la patria è forse l’Africa del nord e non la Campania come si pensa).

L’arte cristiana ebbe notevoli slanci grazie agli influssi di Roma e quelli orientali-bizantini, che lo spirito germanico rielaborò poi alla sua maniera. Dei capolavori sono:

-         il Duomo di Aquisgrana, con la tomba di Carlo Magno;

-         le basiliche si Steinbach e di Seligenstadt.

Le pareti delle chiese vennero ricoperte di pitture (abbazia di Reichenau).

Prodotti eccellenti si ebbero anche nel campo della scultura in avorio, dei lavori in metallo e della miniatura (bibbie, evangelarii).

La penitenza pubblica dell’antichità cristiana rimase in vigore con alcune limitazioni, per cui le colpe gravi pubbliche e scandalose dovevano essere scontate in pubblico, dinanzi alla comunità. Però, mentre prima la penitenza doveva essere accettata dal peccatore, poi veniva imposta durante la visita pastorale e nel giudizio sinodale, anche con l’aiuto della forza secolare. I peccati occulti e meno gravi venivano rimessi alla penitenza privata.

Le opere imposte per penitenza erano digiuni, elemosine, esilii o lunghi viaggi in terra straniera, pellegrinaggi, flagellazioni, entrata in monastero (la proibizione delle nozze venne soppressa). La penitenza era imposta il giovedì delle ceneri e veniva adempiuta durante la Quaresima.

Per fissare le opere penitenziali vennero in uso i libri penitenziali (il più noto è quello di Teodoro, arcivescovo di Canterbury).

Un’innovazione della prassi penitenziale fu la redenzione, che consisteva nella sostituzione di gravi pene canoniche con opere suppletorie (preghiere ed elemosine), che venivano giudicate equivalenti ma che si potevano eseguire con maggiore facilità. Questa procedura venne favorita dall’usanza che ricchi e nobili, per sciogliere in fretta la loro penitenza, si facevano aiutare da persone estranee, anche pagandole: così, si ebbe l’uso di riscattarsi dalla penitenza mediante una somma di denaro offerta per opere pie (i libri penitenziali ne fissavano le tariffe).

Mentre la disciplina penitenziale andava perdendo l’antica severità, aumentava l’esercizio della potestà penale della Chiesa, attraverso:

-         la scomunica, cioè l’esclusione dalla comunità, dalle sue funzioni e dai sacramenti, che divenne poi un’esclusione da ogni rapporto sociale;

-         l’interdetto, cioè la proibizione della Messa e delle funzioni sacre in un dato paese o territorio (all’inizio per quelle persone che si erano impadronite illegittimamente di una chiesa o di un territorio ecclesiastico, poi per diocesi, province ecclesiastiche e anche per regni interi).

Il culto dei santi (specialmente della Vergine Maria, degli apostoli e dei martiri) ebbe un vasto sviluppo: le loro feste si moltiplicarono e i loro sepolcri erano spesso visitati con pellegrinaggi, come i luoghi santi di Gerusalemme. Inoltre, ci cercava con molto zelo di avere reliquie, cioè i corpi stessi dei santi o loro parti, oppure oggetti che erano stati a contatto con i santi durante la loro vita o dopo la morte. Purtroppo, dato il basso livello culturale, questo culto non si mantenne sempre entro i giusti termini: si dava alle reliquie un valore esagerato, si trafficava con esse, se ne mettevano in giro dei falsi, si usavano anche mezzi illeciti per entrarne in possesso.

Si sviluppò l’uso di dare alle chiese, nella loro consacrazione, uno o più santi patroni, le cui reliquie erano state deposte nell’altare.

La letteratura agiografica venne copiosamente curata: sorse una serie di martirologi (i più importanti sono quelli di s. Beda, del diacono Floro di Lione, dei monaci Adone di Vienne e Usuardo di Parigi); spesso molti aspetti erano del tutto leggendari, dovuti a un’esagerata sete di miracoli, ma non mancano vite di santi storicamente pregevoli.

Per il culto di persone morte in odore di santità e per l’introduzione di nuovi santi in una diocesi, decideva la vox populi, con l’approvazione del vescovo. Per introdurre il culto in un territorio più vasto, occorreva l’approvazione del sinodo provinciale. Per dare al culto di un santo un’importanza speciale, si cominciò a chiedere l’approvazione di un sinodo romano: la prima canonizzazione di questo genere è quella del vescovo Udalrico di Augusta ad opera di Papa Giovanni XV nel sinodo lateranense del 993.

 

 

DECADENZA E RIFORMA DEL MONACHESIMO

 

Il monachesimo, soprattutto quello benedettino, prestò servizi notevoli alla Chiesa: ad esso si deve anche in buona parte la conversione, l’educazione e la cultura dei Germani.

Ma l’aumento delle ricchezze fu molto nocivo per la disciplina claustrale e solleticava l’avidità dei signori, sia secolari che ecclesiastici, per cui si ebbero gravi usurpazioni dei diritti e dei possedimenti delle abbazie.

Il maggiordomo Carlo Martello assegnò arbitrariamente molti monasteri ad abati laici e considerò le abbazie più ricche come monasteri propri della corona.

S. Benedetto, abate di Aniane, si adoperò con buon successo per l’applicazione di una disciplina uniforme e per il miglioramento della vita monastica in Francia: il sinodo riformatorio degli abati, tenuto ad Aquisgrana nell’816 sotto la sua direzione, ordinò per tutti l’introduzione della regola benedettina migliorata e completata, nella quale si accentuava un severo distacco dal mondo e il dovere del lavoro manuale.

Molti monasteri, però, vennero distrutti dalle incursioni dei Normanni, dei Saraceni e degli Ungari; inoltre, ci fu l’usanza di accogliere in certi monasteri solo gli appartenenti alla nobiltà. In Francia gli abati laici ebbero di nuovo il sopravvento: essi abitavano nei monasteri con le loro mogli e i figli, coi vassalli e con i cani da caccia, mentre i monaci a loro piacimento abbandonavano il chiostro e conducevano una vita completamente mondana.

In molti monasteri, per avere uno sviluppo più libero e per prevenire le liti troppo frequenti, venne introdotta l’esenzione, cioè essi erano liberati dalla giurisdizione del vescovo e assoggettati direttamente alla Santa Sede.

In mezzo alla decadenza generale della Chiesa e della cultura, sorse una nuova fondazione monastica, dalla quale sarebbe uscita poi la riforma del monachesimo.

All’inizio ci fu l’importante riforma di Gorze presso Metz e di Brogne presso Liegi, dove si formarono alcuni centri di rinnovamento monastico.

Il duca Guglielmo il Pio di Aquitania nel 910 fondò a Cluny (nella Borgogna) un monastero, affidandolo alla direzione dell’abate Bernone di Baume; fece anche in modo che il monastero fosse indipendente da ogni autorità secondaria, sia civile che ecclesiastica, e dipendesse direttamente da Roma (esenzione).

Lo spirito di Cluny fu ottimo fin dall’inizio: si allacciò alla severa regola benedettina e badò particolarmente all’assoluta obbedienza all’abate, a una degna celebrazione della liturgia e della preghiera corale, a una severa disciplina ascetica, al silenzio e alla separazione dal mondo esterno.

Numerosi altri monasteri vennero riformati o fondati da Cluny, così che lentamente si venne costituendo una grande unione monastica o congregazione, sotto la direzione dell’abate di Cluny (il privilegio dell’esenzione venne esteso a tutti i monasteri della congregazione).

Un po’ alla volta la riforma monastica cluniacense si diffuse in tutta la Francia, in Italia, in Germania, in Spagna e in Inghilterra.

Però, dopo il XII secolo, si registrarono segni di decadenza, sia per l’infiltrazione di spirito mondano e sia per dissesti amministrativi: Cluny dovette cedere la sua posizione direttrice nella Chiesa ai nuovi ordini dei Cistercensi e dei Premonstratensi.

L’esempio della vita devota e della disciplina severa, praticate a Cluny, avevano ravvivato e stimolato il clero secolare e i laici (forse anche Urbano II e Gregorio VII erano stati monaci a Cluny!). Strettamente uniti al papato, i monaci cluniacensi combatterono contro la simonia, il matrimonio del clero ed altri abusi ecclesiastici.

In Italia ci fu la riforma della vecchia regola benedettina. Il monachesimo vide un grande rifiorimento:

-         il greco Nilo il Giovane visse come monaco ed eremita in diversi luoghi e infine fondò la celebre abbazia di Grottaferrata presso Frascati;

-         il nobile ravennate s. Romualdo fondò una colonia di eremiti a Camaldoli presso Arezzo (Camaldolesi);

-         fu fondato il monastero di vita cenobitica ed eremitica sul fondamento della regola benedettina a Vallombrosa (Vallombrosani).

Lo spirito severo di penitenza e di firoma di s. Romualdo venne continuato dal suo discepolo e biografo s. Pier Damiani, priore dell’eremo di Fonte Avellana e più tardi cardinale, a cui si deve la diffusione della flagellazione nei monasteri.

 

INIZI DELLA RIFORMA ECCLESIASTICA

 

Per lungo tempo si mantennero nel popolo la mentalità e le usanze pagane e superstiziose (amuleti, portafortuna, proverbi, sortilegi, credenza a streghe, incantatori e geni cattivi). In questo contesto vanno ricordate anche le cosiddette ordalie o giudizi di Dio, che derivavano da concezioni secondo cui  in alcune circostanze la divinità interviene con un segno straordinario in favore dell’innocente, rivelando l’autore di un delitto: terreno favorevole trovarono allora le prove del fuoco, dell’acqua, del sangue, il tirare a sorte e il duello giudiziario; in campo cristiano, si aggiunsero la prova del boccone consacrato, della croce e dell’Eucaristia. I Papi ripudiarono i giudizi di Dio come un tentare Dio, ma non riuscirono ad imporsi.

Accanto alla superstizione erano largamente radicate razzie e vendette, crudeltà, sensualità, intemperanza ed ebrietà, favorite dalle molte guerre e dai disordini politici.

Contro il diffondersi dell’uso della violenza, si inculcò il diritto di asilo delle chiese e dei cimiteri e fu introdotta la tregua di Dio (nei principali tempi sacri si dovevano deporre le armi, pena la scomunica).

Di particolare importanza per la vita religiosa del popolo era, naturalmente, la condotta del clero.

Una speciale difficoltà presentava la legge del celibato ecclesiastico, che obbligava all’astensione dal matrimonio dal suddiaconato in su. Un altro problema era rappresentato dalla simonia, cioè l’acquisto o la consegna di una carica ecclesiastica in compenso di denaro o di altri vantaggi materiali.

I vizi del clero trovarono sempre degli avversari zelanti, soprattutto da parte di coloro che non cessavano di invocare una riforma: la lotta contro il nicolaitismo o eresia nicolaitica (incontinenza del clero) e contro l’eresia sionistica venne condotta con tutta l’energia dagli amici della riforma; alcuni riformatori radicali definirono simonia ogni genere di investitura laicale, anche se non vi era alcun commercio indegno.

 

L’elevazione del Papa tedesco Clemente II, avvenuta nel 1046 ad opera di Enrico III, segna l’inizio di un tempo migliore per la storia del papato: fu accolto il movimento di riforma, partito da Cluny e divenuto ormai forte, e lo stesso imperatore lo appoggiò con zelo. Successore di Clemente II fu Damaso II, già vescovo di Bressanone, che morì di febbre solo dopo 23 giorni.

Importante è il pontificato di Leone IX, già vescovo di Toul, completamente penetrato dello spirito della riforma:

-         accettò la nomina fatta dall’imperatore solo a condizione che seguisse un’elezione canonica, cioè l’accettazione da parte del clero e del popolo di Roma, che poi ebbe luogo;

-         si mantenne in contatto con l’abate di Cluny;

-         chiamò dall’estero uomini valenti animati dallo stesso spirito, come il monaco di Moyenmoutier Umberto, che fece cardinale e suo fidato consigliere;

-         nominò suo cancelliere l’arcidiacono di Liegi Federico (più tardi Papa Stefano IX);

-         ricondusse a Roma il giovane chierico e monaco Ildebrando, che allora era a Cluny, lo ordinò suddiacono e gli affidò l’incarico di economo romano (tesoriere) e di rettore del monastero benedettino di s. Paolo.

Il fine principale del Papa era l’abolizione degli abusi ecclesiastici e l’attuazione dei canoni, specialmente il ripristino dell’antico ideale sacerdotale e monastico e l’applicazione del potere supremo del Papa nella Chiesa. A questo scopo fece lunghi viaggi (Italia, Francia, Germania), tenendo molti sinodi, attraverso cui furono emanate severe decisioni contro la simonia e il matrimonio del clero.

Meno felice fu l’intervento di Leone IX nelle faccende bizantine e in quelle dell’Italia meridionale.

In seguito all’agire precipitoso del patriarca Cerulario di Costantinopoli e all’asprezza dei legati pontifici, la rottura tra la chiesa orientale e quella occidentale scoppiò improvvisamente nel 1054 e si trasformò in uno scisma durevole: Leone non arrivò a vedere l’atto finale di questa tragedia.

Convinto che solo una potenza statale propria poteva garantire l’indipendenza del papato, cercò di ampliare lo Stato Pontificio nell’Italia meridionale: l’imperatore Enrico III cedette Benevento e altri territori alla Chiesa romana, dietro rinunzia dei diritti sovrani del Papa sulla diocesi di Bamberga e sull’abbazia di Fulda. Tuttavia, in seguito a ciò, il papa entrò in conflitto con i suoi vicini, i rapaci Normanni, dopo che alcune bande avventuriere si erano stabilite nel mezzogiorno della penisola e avevano fondato le contee di Aversa (Napoli) e delle Puglie (l’imperatore Enrico III li aveva riconosciuti come vassalli dell’impero): per l’insufficiente aiuto dell’impero germanico, la guerra ebbe una miserevole fine, perché l’esercito papale venne sconfitto e distrutto a Civitate, nelle Puglie, e il papa cadde in mano ai vincitori, che lo trattennero per 9 mesi a Benevento come prigioniero (alla fine lo misero in libertà e morì poco dopo il suo ritorno a Roma).

In questo periodo acquistò importanza il collegio dei cardinali, che comprendeva all’inizio il presbiterio del vescovo di Roma e poi i presbiteri o gli arcipreti delle 25 chiese titolari, cioè delle quasi-parrocchie di Roma; quali aiutanti del Papa nelle celebrazioni liturgiche, nell’amministrazione del patrimonio e nel governo della chiesa, furono ammessi anche i diaconi cardinali; più tardi si aggiunsero i vescovi delle 7 diocesi suburbicarie, a cui a turno spettava di provvedere per una settimana al servizio liturgico della chiesa del Laterano, la cattedrale del Papa.

Nell’XI secolo il numero dei cardinali era 53: 7 cardinali vescovi, 28 cardinali preti e 18 cardinali diaconi. Più tardi diminuì sensibilmente.

La posizione dei cardinali crebbe quando nel 1059 fu riservato ad essi il diritto dell’elezione del Papa: dal loro numero si sceglievano preferibilmente i legati pontifici.

A Leone IX succedette, nominato dall’imperatore, il cancelliere di quest’ultimo, che prese il nome di Vittore II: nel 1056 Enrico III, appena 39enne, morì tra le sue braccia, raccomandando alle sue cure il figlio Enrico IV di appena 6 anni e l’impero; la sua morte prematura fu un grave colpo per la Germania.

Dopo la morte di Vittore II, fu innalzato con elezione canonica Federico di Lorena, abate di Monte Cassino, che si chiamò Stefano IX.

Quando, dopo la sua morte prematura, la Sede Apostolica si rese nuovamente vacante, la nobiltà romana, sotto la guida del conte Gregorio di Muscolo, fratello di Benedetto IX, impose in maniera tumultuosa la nomina del vescovo di Velletri, che si chiamò Benedetto X: questo fatto era in contrasto con le precise disposizioni lasciate da Stefano IX, per cui non si doveva procedere ad alcuna elezione prima del ritorno di Ildebrando dalla sua missione in Germania; questi seppe intervenire abilmente e preparò una nuova elezione. D’intesa con la corte tedesca, venne eletto il vescovo di Firenze, col nome di Niccolò II, che, dopo l’allontanamento di Benedetto, fu riconosciuto da tutti.

Si ritenne urgente una nuova regolamentazione dell’elezione papale: bisognava salvaguardarla contro le invadenze della nobiltà romana e eliminare il più possibile l’influsso dei laici; così il sinodo lateranense del 1059 emanò un decreto per l’elezione del Papa, che disponeva che l’elezione spettasse solo ai cardinali e venisse tenuta possibilmente a Roma, scegliendo un membro del clero romano; al rimanente clero del popolo di Roma restava l’approvazione della nomina, mentre al re Enrico e ai suoi successori era riservato il “dovuto onore e riverenza” (una formula piuttosto oscura, che probabilmente vuole indicare un diritto di conferma o di riconoscimento prima della consacrazione del Papa).

Questo sinodo emanò anche degli energici decreti per l’attuazione della riforma ecclesiastica:

-         al clero concubinario fu comminata la scomunica e ai laici fu proibito di assistere alle loro Messe;

-         il clero fu esortato a riprendere la vita apostolica comune;

-         fu assolutamente vietato di ricevere una chiesa da mano laica, sia gratis che dietro esborso (primo divieto dell’investitura laicale);

-         la simonia fu di nuovo severamente biasimata.

Poiché c’era da aspettarsi che il decreto sull’elezione del Papa avrebbe suscitato forte disappunto in Germania, Niccolò e Ildebrando (che era stato nominato arcidiacono della Chiesa Romana) cercarono con abile mossa politica un contrafforte nei Normanni, fino allora nemici della Sede Apostolica.

Il sinodo lateranense del 1060 rinnovò il decreto dell’elezione papale: questo fatto e la relazione del papato con i Normanni sollevarono tanta indignazione in Germania, fino a giungere ad una rottura dei rapporti con Roma.

Quando morì Niccolò II, la situazione divenne ancora più tesa: mentre la nobiltà romana inviava una delegazione in Germania per ottenere dal re la nomina di un nuovo Papa, Ildebrando procurò l’elezione del vescovo Anselmo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II, il quale aveva avuto una notevole funzione come uno dei capi della patarìa milanese (ma probabilmente non è lo stesso Anselmo, bensì Anselmo da Baggio).

La patarìa (da patta=straccio) era un movimento popolare, sorto soprattutto a Milano, che voleva preti santi (era formata da laici): chiedevano l’attuazione dei decreti contro la simonia e il matrimonio ecclesiastico, leggi che il clero lombardo trascurava molto. Quando Niccolò II inviò a Milano Ildebrando e si alleò alla patarìa, questa conquistò un valido sostegno: ottenne che il debole arcivescovo Guido si sottomettesse col clero del duomo di Milano al legato pontificio Pier Damiani e riconoscesse i suoi doveri ecclesiastici.

L’elezione di Alessandro II non venne riconosciuta in Germania, dove il giovane re Enrico IV proclamò il candidato del partito dei nobili romani e dei vescovi lombardi avversari della riforma, cioè il vescovo di Parma Cadalo, che prese il nome di Papa Onorio II: questa decisione precipitata non era condivisa nemmeno dalla maggioranza della chiesa di Germania.

La doppia elezione portò ad una lotta cruenta per la Sede Romana, lotta che però il duca Goffredo di Tuscia seppe contenere.

Quando, in seguito ad un colpo di stato, l’arcivescovo di Colonia Annone tolse il re minorenne alla direzione della sua debole madre Agnese e prese nelle sue mani il governo dell’impero, subentrò in Germania un cambiamento in merito alla questione del Papa: venne riconosciuto Alessandro e, siccome l’antipapa stava facendo un nuovo attacco contro Roma, un sinodo di vescovi italiani e tedeschi, tenuto a Mantova, si pronunciò definitivamente in favore di Alessandro.

Però lo scisma finì del tutto solo con la morte di Cadalo, poiché egli aveva sempre i suoi sostenitori nell’Italia settentrionale e mantenne vive le sue pretese.

 

 

 

Il basso Medioevo

 

LA LOTTA PER LE INVESTITURE

 

Dopo la morte di Alessandro II, fu eletto Papa a furor di popolo, col nome di Gregorio VII, l’arcidiacono Ildebrando, nato a Soana nella Tuscia romana (Soana non è Savona, come si dice).

Scopo principale della sua vita fu il ripristino del retto ordine, cioè il consolidamento del Regno di Dio sulla terra, sotto la guida attiva del successore di Pietro e vicario di Cristo, a cui le potenze secolari devono subordinarsi in tutto ciò che riguarda la salvezza del mondo cristiano.

In primo luogo, Gregorio continuò l’opera di riforma ecclesiastica iniziata dai suoi predecessori: si rinnovarono con accentuato rigore i decreti di Leone IX e di Niccolò II contro la simonia e il matrimonio degli ecclesiastici; si proibì l’esercizio delle funzioni religiose agli ecclesiastici incontinenti e si incitò il popolo a tenersene lontano.

Alla lotta svolta dentro la Chiesa contro la corruzione del clero, si collega la sua presa di posizione contro le investiture laicali; infatti, le cause principali dei mali della Chiesa derivavano proprio dall’eccessiva implicazione del clero negli interessi terreni e il dominio dei laici nelle cose della Chiesa.

Gregorio VII espose il suo programma politico-ecclesiastico sviluppando e coordinando dei pensieri di Agostino, di Gregorio Magno e di Niccolò I, in 27 brevi proposizioni che costituiscono il cosiddetto Dictatus Papae, che:

-         per alcuni è una raccolta di codici,

-         per altri è un vero trattato.

Comunque, il documento, insieme all’epistola di Gregorio che lo contiene, è da ritenersi uno scritto autentico del Papa stesso. Le proposizioni principali riguardano il rapporto tra sacerdozio e regno ed esprimono la rivendicazione papale della superiorità del potere spirituale su quello temporale.

L’intervento di Gregorio fu provocato principalmente dall’impero germanico.

Il re Enrico IV fu dichiarato maggiorenne nel 1065, a 15 anni: il giovane sovrano possedeva talento ed energia, ma aveva una cattiva educazione e gli mancavano maturità ed autocontrollo; il suo governo offrì presto motivi di scontento.

All’inizio i rapporti di Gregorio VII con il re di Germania furono tutt’altro che ostili: quando ci fu il sollevamento dei Sassoni, egli si era mostrato favorevole ai piani di riforma del Papa; in uno scritto aveva confessato le sue molteplici mancanze verso la Chiesa, dovute particolarmente a traffici simoniaci; aveva promesso di emendarsi e di obbedire.

Nel sinodo quaresimale del 1075, Gregorio fece un passo importante: oltre alla simonia e al matrimonio del clero, egli proibì anche ogni conferimento di uffici ecclesiastici fatto per mano di laici, e in particolare l’investitura dei vescovi per mano del re di Germania; scopo di questa disposizione era quello di proteggere l’elezione canonica dei vescovi e degli abati. Ma l’investitura ad opera di laici si fondava su una secolare e ormai salda consuetudine, che in passato era stata riconosciuta perfino a Roma, per cui si sollevò ovunque una fiera opposizione, soprattutto nell’impero germanico-italiano.

Enrico IV, senza piegarsi al divieto delle investiture, provvide a nominare i titolari di parecchi vescovati italiani, fra cui quello importantissimo di Milano, che oltre tutto non era neppure vacante; inoltre, riprese i rapporti con i consiglieri scomunicati.

Il Papa gli fece rimostranze e si dichiarò pronto a un accordo, ma oralmente lo fece minacciare di scomunica e di deposizione, se si ostinava nella disobbedienza.

L’imperatore passò alla lotta aperta: in un sinodo fece dichiarare deposto il Papa, da 26 vescovi; egli stesso diffuse un manifesto polemico contro Ildebrando, non Papa ma “falso monaco”, in cui egli, nella sua veste di patrizio romano, ordinava a Gregorio di scendere dalla cattedra apostolica usurpata.

A favore del Papa si schierarono anche validi alleati politici, come la potente marchesa Matilde di Toscana.

Come reazione immediata il Papa lanciò la scomunica contro Enrico e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà, proibendo l’obbedienza verso di lui; i vescovi avversari furono in parte sospesi e in parte scomunicati, costretti così alla sottomissione.

Una simile punizione suscitò grande scalpore nel mondo cristiano, ma la scomunica ebbe la sua efficacia: l’imperatore, nella sua situazione disperata, promise al Papa obbedienza e soddisfazione per le offese arrecate; per ottenere l’assoluzione dalla scomunica, egli passò le Alpi nel cuore dell’inverno, con un piccolo seguito, mentre il papa, che si stava già dirigendo verso il settentrione, si ritirò a Canossa, nel castello della marchesa Matilde. Il re di Germania, che si era fermato ai piedi del castello, si presentò per 3 giorni successivi, insieme al suo seguito, scalzo e vestito di saio come un penitente, implorando l’assoluzione dalla scomunica. Dopo prolungate e difficili trattative, in cui intercedettero caldamente per lui la marchesa Matilde e l’abate Ugo di Cluny (padrino di battesimo dell’imperatore), al 4° giorno il papa gli concesse l’assoluzione e gli somministrò la Comunione.

La penitenza rappresentò certamente una grave umiliazione per l’imperatore, ma nello spirito del tempo essa non aveva in sé nulla di degradante; anzi, si potrebbe parlare addirittura di una vittoria dell’imperatore sul Papa: mentre il primo riusciva a salvare la sua corona, il secondo si lasciava sfuggire così importanti vantaggi politici (lo statista in lui si era sacrificato al sacerdote).

Tuttavia, si vede chiaramente come il rapporto fra impero e papato si fosse modificato a favore di quest’ultimo.

Scontento dell’assoluzione dalla scomunica, il collegio dei principi germanici rigettò Enrico ed elesse re il suo ambizioso cognato Rodolfo duca di Svevia.

Con la minaccia di eleggere un antipapa, Enrico chiese a Gregorio il riconoscimento per sé e la scomunica per Rodolfo: il Papa rinnovò la scomunica e la deposizione di Enrico e confermò re Rodolfo; inoltre, rinnovò il divieto dell’investitura e lo rese più grave, con la minaccia di scomunica.

Enrico fece di nuovo dichiarare deposto Gregorio, da compiacenti vescovi italiani e tedeschi, e fece eleggere come antipapa l’arcivescovo di Ravenna, col nome di Clemente III, che fu immediatamente scomunicato da Gregorio.

Quando Rodolfo venne sconfitto da Enrico nella battaglia sull’Elster, egli trovò un insignificante successore nel conte Ermanno di Salm-Luxemburg; Enrico trasportò il combattimento in Italia e, dopo un triplice assedio di Roma, poté impossessarsi della città (eccetto Castel S. Angelo, in cui Gregorio ancora resisteva): 13 cardinali abbandonarono il legittimo Papa e passarono dalla parte di Clemente; per mano sua, Enrico fu incoronato imperatore.

Gregorio fu sul punto di cadere in potere del suo avversario, quando giunse in suo soccorso il duca dei Normanni Roberto il Guiscardo, vassallo della Sede Romana, che con un forte esercito costrinse i Tedeschi alla ritirata.

Protetto dai Normanni, il Papa si ritirò nel meridione e stabilì la sua sede a Salerno, dove morì nel 1085; è sepolto nel duomo di Salerno e sulla tomba è scritto: “Ho amato la giustizia e ho odiato l’empietà, perciò muoio in esilio”.

La lotta per le investiture e lo scisma papale continuarono anche dopo la morte di Gregorio VII: la situazione della Curia continuò ad essere precaria e la maggior parte di Roma favoriva l’antipapa Clemente III.

Ma il partito gregoriano, dopo 11 mesi, riuscì ad eleggere l’abate Desiderio di Monte Cassino (amico di Gregorio VII), che prese il nome di Vittore III, di ragguardevole famiglia longobarda, uomo mite e conciliante.

Dopo la sua morte, avvenuta poco dopo, passò ancora 1 anno e ½ prima che fosse eletto il suo successore, Urbano II, francese di nascita, cardinale-vescovo di Ostia e già priore a Cluny; egli seguì in tutto l’indirizzo tenuto da Gregorio VII e condannò l’investitura ad opera dei laici, anche se fu più prudente.

Sotto il pontificato del suo successore Pasquale II lo scisma papale volse al termine (era morto Clemente III e gli altri antipapi ebbero scarso rilievo).

Frattanto, in Germania e in Italia proseguiva la lotta fra Enrico IV e i gregoriani: per quanto l’imperatore fosse in una posizione più favorevole (perché la maggior parte dei vescovi tedeschi lo sosteneva), non fu tuttavia in grado di avere ragione dei suoi avversari.

Nella sua 2a campagna in Italia, Enrico IV raggiunse inizialmente alcuni successi militari, ma la marchesa Matilde di Toscana, che era in lega con i Lombardi, ostili all’imperatore, lasciò tutti i suoi ricchi beni di famiglia in proprietà alla Santa Sede.

In Inghilterra, intanto, il re di Normandia Guglielmo il Conquistatore si era impadronito del paese, instaurandovi il dominio normanno: nella nomina e nell’investitura dei vescovi, egli praticava il vecchio sistema; volle intervenire dispoticamente nel governo della chiesa inglese, ma per questo i suoi rapporti con la Curia non subirono gravi turbamenti, perché, con l’aiuto dell’arcivescovo di Canterbury e di legati papali, favoriva la riforma della Chiesa; prese anche posizione contro la simonia e il concubinato degli ecclesiastici.

Sotto il figlio Guglielmo II il Rosso, si giunse però ad un conflitto, perché questi faceva commercio di cariche ecclesiastiche e usurpava i beni della Chiesa. Dopo un breve periodo di pentimento, a seguito di una malattia, egli si diede a perseguitare con violenza l’arcivescovo di Canterbury Anselmo, altamente benemerito per la riforma ecclesiastica, costringendolo ad andare in esilio e a cercare rifugio presso il Papa Urbano II.

Il fratello e successore di Guglielmo, Enrico I il Leone, animato da sentimenti di benevolenza verso la Chiesa, subito dopo la sua assunzione al trono richiamò l’esiliato: questi, però, si rifiutò di accettare di nuovo la carica vescovile dalle mani del re, con prestazione del giuramento di fedeltà, e andò di nuovo in esilio.

Ma la lotta per le investiture in Inghilterra giunse presto ad un accomodamento: per sfuggire alla scomunica che gli veniva minacciata, Enrico rinunciò all’investitura spirituale con l’anello e il pastorale e Anselmo prestò il giuramento feudale; Papa Pasquale, anche se malvolentieri, tollerò questo compromesso. Da questo momento in poi fu assicurata la pace in Inghilterra.

Più arduo fu raggiungere una durevole intesa con l’impero germanico: Enrico IV era morto ancora gravato dalla scomunica, dopo che il figlio Enrico V, col tradimento e l’infedeltà, l’aveva costretto ad abdicare, valendosi anche dell’aiuto dei gregoriani; il nuovo sovrano, un freddo calcolatore privo di scrupoli, si rivelò geloso dei diritti ereditati con la corona germanica. Il Papa Pasquale II si affrettò con fermezza a proibire l’investitura da parte dei laici e così nacquero aspre lotte.

Nel 1110 il re compì il suo primo viaggio a Roma, per restaurare in Italia l’autorità germanica e ottenere la corona imperiale: col trattato concluso a S. Maria in Turri, presso S. Pietro a Roma, Enrico rinunciò alle investiture e permise le elezioni canoniche, alla condizione però che il Papa, se necessario con la minaccia di scomunica, ordinasse ai vescovi tedeschi la restituzione di tutti i beni e i diritti sovrani che avevano ricevuti dall’impero. Queste condizioni all’inizio furono tenute nascoste e, quando il giorno dell’incoronazione furono rese note, trovarono una forte opposizione dei vescovi tedeschi. Enrico cercò di imporre la sua volontà con la violenza e fece prigioniero a S. Pietro il Papa, che si rifiutava di incoronarlo, insieme a 13 cardinali. Dopo una prigionia di 2 mesi, il Papa fu costretto con un nuovo trattato a concedergli il diritto di investitura con l’anello e il pastorale, riconoscendo però la libera elezione dei prelati; inoltre, Papa Pasquale dovette giurare di non molestare l’imperatore per quanto era successo e, in particolare, di non colpirlo con la scomunica. Dopo questi preliminari, fu celebrata l’incoronazione imperiale.

Ma le concessioni estorte con la violenza non potevano avere lunga durata.

Nell’ambito dei gregoriani, soprattutto in Francia, circolava l’irritazione e si giunse perfino a minacciare la deposizione del Papa, il quale fu costretto a ritirare il privilegio e a confermare un sinodo che condannava come eresia l’investitura da parte dei laici (il sinodo aveva lanciato anche la scomunica su Enrico, qualificandolo “un altro Giuda”, ma il Papa non volle rompere i rapporti con l’imperatore).

Quando nel 1116 egli comparve per la 2a volta in Italia, per avviare delle trattative, Papa Pasquale evitò di incontrarsi con lui, fuggendo verso il Meridione.

Sotto il pontificato del suo successore Gelesio II, già monaco a Monte Cassino, si giunse ad una rottura formale. All’avvicinarsi dell’imperatore, il Papa si rifugiò a Gaeta, sua città natale, e, poiché le trattative iniziate rimasero invane, Enrico fece eleggere un antipapa, l’arcivescovo Maurizio di Braga, nel Portogallo, che prese il nome di Gregorio VIII, rinnovando così lo scisma. Gelasio scomunicò l’imperatore e l’antipapa, si recò in Francia e morì a Cluny.

A Cluny fu eletto Callisto II, già arcivescovo di Vienna, che proveniva dall’alta nobiltà ed era imparentato con le case reali di Francia, Inghilterra e Germania: con lui si arrivò a una linea di compromesso.

Già alcuni canonisti francesi, come il vescovo di Chartres Ivo, aveva illustrato l’aspetto teorico del problema: si imparò a distinguere fra ufficio e possesso, fra l’aspetto spirituale e quello temporale dell’investitura, fra il conferimento di una chiesa (con i simboli dell’anello e del pastorale) e l’infeudazione delle regalie (la cosiddetta investitura feudale, la quale non fu più contestata all’imperatore).

Lo scisma papale per allora ebbe termine: l’antipapa Gregorio, con l’ingresso di Callisto II a Roma, dovette recedere e, dopo un severo processo, fu relegato in un monastero.

Dopo prolungate trattative, a cui parteciparono anche 3 cardinali come legati pontifici, nel 1122 si giunse al concordato di Worms, o Pactum Calixtinum, che teneva conto della duplice posizione dei vescovi e degli abati germanici. Il risultato del compromesso fu redatto in 2 documenti, uno dell’imperatore e l’altro del Papa: Enrico, che fu assolto dalla scomunica, rinunciava all’investitura dei prelati con l’anello e il pastorale e riconosceva le elezioni canoniche con la conferma dell’eletto per opera del metropolita; il Papa riconosceva all’imperatore il diritto di assistere alle lezioni dei prelati in Germania, purché fosse esclusa la simonia e l’impiego della forza, mentre l’investitura temporale veniva da lui conferita con lo scettro, simbolo dell’autorità temporale, e questo si doveva fare in Germania prima della consacrazione, dando così la possibilità di escludere un candidato non gradito.

Così la lotta per le investiture, durata quasi 50 anni, giungeva al suo epilogo.

Certamente l’impero era riuscito ad affermare buona parte dei suoi diritti, ma la vincitrice sostanziale nella contesa era stata la Curia; infatti, l’investitura da parte dei laici, nella sua vecchia forma, venne eliminata, le elezioni dei vescovi e degli abati e la facoltà di disporre dei simboli dell’ufficio spirituale furono restituiti alla Chiesa, e la tutela esercitata dal potere temporale su quello spirituale fu infranta.

 

 

SCISMA PAPALE E REPUBBLICA ROMANA

 

Nel corso della lotta per le investiture, le idee gregoriane si erano diffuse anche in Germania.

Dopo la morte di Enrico V, con l’appoggio del partito papale, fu eletto re il duca di Sassonia, col nome di Lotario III.

Il partito papale mirò subito ad una più ampia libertà della Chiesa nell’occupazione delle maggiori prelature; quindi, chiese che il re rinunciasse al suo diritto di assistere alle elezioni canoniche, che conferisse l’investitura delle regalìe solo dopo la consacrazione, e che si accontentasse del giuramento di fedeltà in luogo di quello di vassallaggio.

Ma Lotario evitò di assumere nuove obbligazioni: la situazione giuridica raggiunta nel concordato di Worms rimase sostanzialmente valida. Egli, inoltre, chiese al Papa la conferma della sua elezione, ma purtroppo il governo di Lotario fu gravemente turbato da dissidi interni.

Frattanto a Roma era divenuto Papa Onorio II, già cardinale-vescovo di Ostia, che si era reso meritevole per la riuscita del concordato di Worms: la sua elezione era stata propugnata dalla nobile famiglia dei Frangipani e il cardinale Teobaldo (Celestino II), che era stato eletto prima di lui, dovette cedergli il passo.

Col re Lotario, Onorio si tenne costantemente in buoni rapporti, ma dopo la sua morte lo scisma che si era prospettato alla sua elezione scoppiò veramente.

Per prevenire gli intrighi del partito di opposizione, sostenuto dalla famiglia dei Pierleoni, 16 cardinali (d’accordo con i Frangipani) elessero precipitosamente Innocenzo II, mentre gli altri 14 cardinali (a cui se ne aggiunsero poi altri 10) elessero alcune ore dopo Anacleto II, che proveniva da una famiglia di banchieri arricchiti di Roma, originariamente ebrei. A favore di Innocenzo c’era la precedenza cronologica e la maggior dignità della persona, mentre a favore di Anacleto c’erano il maggior numero di elettori e la più ordinata procedura elettorale.

Quasi tutta Roma, vinta dal denaro, riconobbe Anacleto, mentre Innocenzo dovette fuggire in Francia, dove però ottenne il potente aiuto dei monaci francesi. In suo favore si schierò soprattutto s. Bernardo, abate del monastero cistercense di Clairvaux: la sua parola decisiva ottenne che la Francia riconoscesse Innocenzo come legittimo capo della Chiesa. Ben presto seguì l’esempio anche la Germania, dove si adoperò per Papa Innocenzo s. Norberto, fondatore dell’ordine dei Premostratensi e consigliere del re Lotario. Infine, si schierò dalla parte di Innocenzo anche l’Inghilterra.

Dalla parte di Anacleto era schierato specialmente il duca normanno dell’Italia meridionale e della Sicilia Ruggero II, a cui il Papa conferì il titolo di re e confermò i diritti di legazia papale.

Nella sua 1a calata in Italia, Lotario ricondusse Innocenzo a Roma e fu da lui incoronato imperatore; tuttavia, contro la consuetudine, ciò avvenne nella basilica del Laterano, perché la città leonina, insieme alla basilica di s. Pietro, era ancora nelle mani di Anacleto. In questa occasione Innocenzo, anche se malvolentieri, confermò il concordato di Worms, in particolare il diritto del re di conferire le regalìe ai prelati prima della consacrazione.

Nella sua 2a venuta a Roma, l’imperatore Lotario invase con la forza il regno normanno, fino a Bari e a Salerno, sottomettendolo al suo dominio e all’autorità del Papa Innocenzo. Ma dopo il suo ritorno in patria, Ruggero si impossessò di nuovo dell’Italia meridionale.

L’antipapa Anacleto riuscì a mantenersi a Roma fino alla morte, dopo la quale il partito dei Pierleoni gli diede ancora un successore, Vittore IV, che però dopo 2 mesi si sottomise ad Innocenzo.

Ruggero, tuttavia, perseverò nella sua opposizione; il concilio lateranense del 1139 lanciò la scomunica sul sovrano, ma invano. Qualche mese più tardi Innocenzo fece una spedizione armata contro di lui, che però ebbe esito disastroso; il Papa stesso cadde prigioniero dei Normanni e, per riacquistare la libertà, dovette assolvere Ruggero dalla scomunica, riconoscerlo come re e investirlo di nuovo delle Puglie e della Sicilia.

Lo scisma era appena terminato quando nello Stato Pontificio sorsero nuove difficoltà.

Fermenti di idee repubblicane di libertà, provenienti dalla Lombardia, si erano diffusi anche tra la cittadinanza romana; esse si associavano al ricordo dell’antico dominio universale di Roma e ai sentimenti di ostilità verso l’impero germanico.

Quando Innocenzo rifiutò ai Romani il permesso di radere al suolo la città di Tivoli, colpevole di una ribellione che fu poi soffocata, ebbe con essi un grave conflitto: i 2 Papi seguenti Celestino II (che durò 5 mesi) e Lucio II (che durò 11 mesi) non furono in grado di ristabilire la pace.

I Romani rifiutarono l’obbedienza ed elessero, come autorità della nuova repubblica, un senato e un patrizio (Giordano Pierleoni, fratello di Anacleto II).

L’appello di Lucio II alla Germania fu vano, poiché il nuovo re Corrado III della casa di Svevia, già antire al tempo di Lotario, era troppo impegnato in altre complicazioni per potersi decidere ad una campagna al di qua delle Alpi (la sua politica estera difettò di chiarezza e continuità, per cui non arrivò ad ottenere la corona imperiale).

L’assenza di una salda autorità imperiale si ripercosse anche in Italia, dove l’attività demagogica del canonico agostiniano Arnaldo da Brescia rese la situazione ancora più grave. Egli godeva nella sua città di una grande reputazione come severo asceta e acceso predicatore di riforma:

-         censurava aspramente l’avidità e le tendenze mondane nella Chiesa;

-         si rivolse con veemenza anche contro il dominio temporale e i possedimenti del clero in genere;

-         proclamò la necessità che il clero ritornasse alla povertà apostolica, se voleva salvarsi, accontentandosi per il sostentamento delle decime e delle elemosine.

Condannato ed esiliato, egli condusse un’inquieta vita errabonda in Francia e in Svizzera, ma dopo la morte di Innocenzo II tornò in Italia e si mise alla testa del movimento democratico a Roma, riempiendo di entusiasmo i suoi ascoltatori, perché voleva far rivivere lo splendore dell’antica Roma.

A causa di queste agitazioni, il Papa Eugenio III, successore di Lucio II, pur essendo venuto ad accordi per 2 volte con la repubblica romana, dovette trascorrere gran parte del suo pontificato fuori Roma; egli, che era stato monaco cistercense e discepolo di s. Bernardo, era uomo pio e animato dalle migliori intenzioni, ma aveva carattere debole. Contro le sollevazioni dei Romani non trovò aiuto né in Francia e né in Germania. Infine, il nipote e successore di Corrado, Federico I Barbarossa, nel trattato di Costanza del 1153, promise di ridurre Roma al riconoscimento dell’autorità papale e di garantire tale autorità contro la minaccia normanna; in cambio, gli dovevano essere concessi la corona imperiale e l’aiuto della Curia contro i nemici dell’impero, ma Eugenio non poté assistere all’esecuzione del trattato e neppure lo poté il suo successore Anastasio IV, d’età molto avanzata.

 

 

FEDERICO I BARBAROSSA IN LOTTA CON I PAPI

 

Con Federico I Barbarossa di Hohenstaufen, duca di Svevia, salì al trono uno dei più gloriosi sovrani, che portò la Germania ad un altissimo grado di potenza; egli era animato da una sincera religiosità, ma nello stesso tempo amava la vita del mondo.

Come il suo grande modello Carlo Magno, mirò a dominare la Chiesa germanica, tramite un episcopato a lui sottomesso, e a circoscrivere l’autorità del papato alla sfera spirituale. Ma siccome i Papi erano altrettanto decisi a mantenere salda la preminenza spirituale su quella temporale, era inevitabile che sorgessero nuovi conflitti.

Sotto il pontificato di Adriano IV (l’unico Papa di origine inglese) si giunse ad uno scontro.

In occasione della sua 1a venuta a Roma, Federico in un primo momento dell’incontro avvenuto a Sutri si rifiutò di rendere al Papa il servizio di reggergli le redini e di tenergli la staffa, poiché temeva che ciò potesse essere interpretato come servizio di vassallo, e si adattò a questa usanza tradizionale solo in seguito al consiglio dei principi anziani. Nel 1155 ci fu l’incoronazione imperiale a S. Pietro.

Con grande delusione del Papa, poco dopo l’incoronazione Federico tornò in Germania senza prestare l’aiuto contro i Normanni: incalzato dal re Guglielmo I di Napoli e di Sicilia, figlio di Ruggero II, il Papa fu costretto a stipulare con lui un accordo, col quale lo riconosceva vassallo della Santa Sede. Ciò significava un ritorno della politica papale agli orientamenti di Gregorio VII, che si era servito dei Normanni come di un appoggio contro l’imperatore: simile atteggiamento irritò gravemente Federico.

L’arcivescovo danese Eschilo di Lund, zelante gregoriano e amico di s. Bernardo, durante il suo viaggio di ritorno da Roma fu fatto prigioniero da alcuni predoni e l’imperatore aveva mostrato scarsa sollecitudine nel liberarlo.

Nello scritto inviato per lagnarsi di questo fatto, presentato da 2 cardinali legati alla dieta imperiale di Besançon, si accennava a più grandi benefici che il Papa sarebbe stato pronto a concedere all’imperatore; ma il cancelliere imperiale Rinaldo di Dassel, membro del clero e abile statista, uomo su cui cade gran parte della responsabilità per la politica ecclesiastica dell’imperatore, interpretò questo scritto come se ci fossero dei diritti feudali.

L’atteggiamento dell’imperatore si aggravò quando il capo dell’ambasciata, il cardinale e cancelliere della Chiesa Romana Orlando Bandinelli, che era stato celebre maestro di diritto canonico a Bologna, con la sua condotta sembrò giustificare il sospetto. Subito i legati papali furono espulsi dal territorio dell’impero. Federico elevò fiere proteste presso la Curia papale, facendosi forte dell’approvazione unanime dei vescovi tedeschi.

A Roma si tentò di appianare la contesa: Adriano diede interpretazioni rassicuranti, ma la tensione si accrebbe quando, in occasione della sua 2a calata in Italia, Federico, appoggiandosi ai giuristi bolognesi e ai recenti studi di diritto romano bizantino, fece una proclamazione dei diritti sovrani dell’imperatore, senza lasciare campo alcuno né all’autonomia comunale delle città lombarde e né ad una politica di libertà di movimento del papato. I vescovi italiani che erano in possesso di regalìe furono obbligati a prestare giuramento di feudalità come i vescovi germanici; lo Stato Pontificio fu trattato come un territorio imperiale e si tornarono ad esigere tasse cadute in disuso da lungo tempo.

Inoltre l’imperatore seppe attirare l’episcopato tedesco nell’ambito degli interessi dell’impero e nelle nomine vescovili, in Germania e in Italia, seppe far valere la sua influenza, tanto che si poteva parlare di vere e proprie nomine imperiali.

Le proteste del Papa non sortirono alcun effetto. Adriano era già sul punto di scomunicare l’imperatore quando inaspettatamente morì.

La nuova elezione si svolse sotto il segno del disaccordo: una piccola minoranza di tendenza imperiale elesse Vittore IV, della famiglia dei conti di Tuscolo, mentre la maggioranza dei cardinali, favorevole ad una rigida prosecuzione della lotta, elesse Alessandro III. Il diritto era dalla parte di quest’ultimo, il quale scomunicò subito Vittore come intruso; tuttavia era avvenuta una doppia elezione, per cui l’imperatore poteva cogliere l’occasione per intervenire, come protettore della Chiesa. Egli convocò un sinodo a Pavia, per risolvere la contesa ecclesiastica: esso si pronunciò a favore di Vittore, che era personalmente presente, e scomunicò Alessandro e i suoi seguaci. Dal canto suo, Alessandro rifiutò fin dal principio il sinodo, come invalido, scomunicò l’imperatore e l’antipapa e sciolse i sudditi di Federico dal giuramento di fedeltà. Così un nuovo scisma divideva il mondo cristiano, e fra il papato e l’impero scoppiò una lotta funesta.

Per quanto Federico si preoccupasse di assicurare una validità universale alle deliberazioni del sinodo, Vittore ebbe riconoscimento solo nell’ambito in cui si esercitava la potenza dell’imperatore, e anche qui non senza lacune. I re Luigi VII di Francia e Enrico II d’Inghilterra, gelosi di una supremazia imperiale sull’Europa e sulla Chiesa, si dichiararono per Alessandro; altri stati seguirono il loro esempio.

Il Papa, finché perdurava la guerra contro i suoi alleati lombardi, non poté trattenersi in Italia e fuggì in Francia, dove rimase 3 anni e ½; il tentativo di Federico di distogliere il re di Francia dall’obbedienza al Papa naufragò.

Dopo la morte di Vittore IV, il cancelliere imperiale Rinaldo di Dassel fece eleggere un nuovo antipapa, Pasquale III, a cui si impegnarono a mantenersi fedeli sia l’imperatore e sia i principi ecclesiastici e secolari.

Il re d’Inghilterra, intanto, a causa di alcuni dissidi con l’arcivescovo Tommaso Becket di Canterbury, arrivò alla rottura con Papa Alessandro e si alleò con Federico, inviando ambasciatori ad esprimere la sua adesione all’antipapa Pasquale; ma, per l’opposizione unanime dell’episcopato inglese, egli non riuscì a svincolarsi. Era successo che Enrico II aveva cercato di limitare, a favore del potere regio, la potenza e i privilegi del clero della sua terra; egli aveva fatto in modo che alcune vecchie consuetudini a favore della corona inglese nei rapporti con la Chiesa fossero riconfermate e codificate in 16 articoli, in cui si prendevano disposizioni sull’elezione dei vescovi, si privava il clero della sua libertà giudiziaria, si intercedevano le facoltà di appello a Roma, si subordinavano al permesso del re i viaggi all’estero dei prelati, si limitava la libertà della Chiesa nell’inflizione di censure, ecc. L’arcivescovo di Canterbury aveva aderito agli articoli solo dopo lunga opposizione e si era rifiutato di sigillare il documento (anche Alessandro III aveva rigettato i 16 articoli), per cui il re oppresse l’arcivescovo, che dovette rifugiarsi in Francia dal Papa (quando tornò in patria dopo 6 anni di esilio, l’arcivescovo venne ucciso nella cattedrale; il popolo lo venerò come martire e il Papa lo canonizzò).

Nonostante il fatto che Federico dichiarò nemici dell’impero coloro che non riconoscevano Papa Pasquale, minacciandoli con la perdita dei beni e con l’esilio, egli non fu in grado di vincere completamente la resistenza in Germania; anche l’espediente di far canonizzare Carlo Magno non riuscì a suscitare nell’opinione pubblica l’effetto desiderato.

In Italia, frattanto, la situazione si fece più minacciosa per l’imperatore: ostile a lui, si era formata la Lega Veronese (Verona, Vicenza, Padova), appoggiata da Venezia; così nel 1165 Papa Alessandro poté tornare a Roma.

Nella sua 4a calata in Italia, il Barbarossa sferrò l’attacco direttamente contro il Papa e la città di Roma venne completamente assoggettata; Alessandro dovette fuggire a Benevento, mentre Federico fece intronizzare in S. Pietro il suo Papa, facendosi nuovamente incoronare da lui.

Ma la caduta fu repentina: un’epidemia malarica, scoppiata improvvisamente, falcidiò più di 2000 cavalieri dell’esercito di Barbarossa; la parte avversa allora trionfò e non mancò di interpretare la sventura come un giudizio di Dio. La Lega Veronese si allargò, trasformandosi nella Lega Lombarda, con 22 città.

Federico non si diede per vinto e, dopo la morte di Pasquale, riconobbe il nuovo antipapa eletto, cioè Callisto III. Le trattative di pace riprese con Alessandro III fallirono e, ancora una volta, dovevano decidere le armi.

Nella sua 5a calata in Italia, Federico si trovò di fronte delle forze superiori alle sue, poiché il più potente principe dell’impero, Enrico Leone duca di Sassonia e di Baviera, per ragioni di politica egoistica si era rifiutato di unirsi al suo esercito. Nella battaglia di Legnano del 1176 il Barbarossa subì da parte dei Milanesi una grave sconfitta e dovette cedere, cercando un accordo con la Curia.

La pace definitiva fu stipulata nel 1177 a Venezia, dove il Papa e l’imperatore si incontrarono: quest’ultimo, assolto dalla scomunica, dovette lasciar cadere l’antipapa e riconobbe Alessandro, al quale prestò l’ossequio del bacio del piede, obbligandosi a restituire alla Chiesa Romana i beni che le erano stati sottratti e a riconoscerne i diritti. Con i Lombardi ci fu un armistizio e, dopo 6 anni, la pace di Costanza.

Nonostante la sua aperta sconfitta nella lotta con il papato, la potenza di Federico sulla chiesa tedesca non fu scossa; i vescovi da lui nominati e i seguaci degli antipapi non furono molestati.

Papa Alessandro era riuscito ad affermare l’indipendenza del papato di fronte al potente imperatore e fu riaccompagnato a Roma dalle truppe imperiali, guidate dall’arcivescovo Cristiano di Magonza. Dopo che anche Callisto III aveva fatto atto di sottomissione, a conferma della pace il Papa celebrò nel 1179 il 3° concilio lateranense, l’XI concilio ecumenico: fra i decreti ivi emanati, importante è il canone I, in cui si prescrivevano per l’elezione papale i 2/3 dei voti dei cardinali, ai quali spettava in maniera esclusiva il diritto di elezione. Papa Alessandro morì 2 anni dopo.

I successori di Alessandro III non furono più fortunati di lui nell’affermare il dominio temporale dei Papi di fronte alle aspirazioni repubblicane: Lucio III, di età avanzata, si trattenne a Roma solo pochi mesi; Urbano III e Gregorio VIII trascorsero il loro pontificato fuori Roma; solo Clemente III poté tornare a Roma e porre fine alle contese in un accordo con i Romani.

Mentre il papato attraversava questo periodo critico, la potenza della casa di Svevia era in ascesa: nell’ultimo periodo di governo di Federico I, la Germania ebbe giorni tranquilli e felici; l’imperatore e l’impero godevano in Europa potenza e autorità. Ma ci fu un nuovo contrasto tra l’impero e il papato.

Il Barbarossa continuava a tenere occupati i possedimenti della marchesa Matilde, come punti di appoggio del suo dominio nell’Italia centrale; inoltre, in occasione di un’elezione controversa per la sede arcivescovile di Treviri, il Papa e l’imperatore assunsero atteggiamenti diversi, perché quest’ultimo sosteneva Rodolfo di Wied mentre il Papa sosteneva l’arcidiacono Folmar.

Di gravissima importanza per i rapporti fra papato e impero fu la politica seguita da Federico nell’Italia meridionale: egli fece sposare il figlio Enrico VI, che era già re di Germania e che fece incoronare anche re d’Italia, con la molto più anziana Costanza, figlia di Ruggero II, zia ed erede del re Guglielmo II di Napoli e di Sicilia, che non aveva avuto figli. Ma questa unione portava in sé il germe di un grave conflitto con il papato, che era ostacolato nella sua libertà di movimento e che vedeva compromessi i suoi diritti di signore feudale nell’Italia meridionale, rischiando persino di perdere la sua indipendenza.

Urbano III consacrò vescovo di Treviri quel Folmar che Federico aveva ostacolato, esigendo la rinuncia ai diritti regi di regalìa; Federico fece devastare e occupare alcune terre dello Stato Pontificio, tagliando quasi tutte le comunicazioni al Papa, che si trovava allora a Verona. Urbano era sul punto di lanciare di nuovo la scomunica sul Barbarossa, ma fu costretto a cambiare proposito a causa dei vescovi tedeschi, che si schierarono unanimi dalla parte dell’imperatore.

Dopo Clemente III, divenne Papa Celestino III di 85 anni, mentre in Germania teneva le redini dell’impero Enrico VI di 25 anni, che nel 1191 ricevette a Roma la corona imperiale. Ma egli, senza tener conto degli ammonimenti del Papa, si affrettò subito verso l’Italia meridionale, per prendere possesso del trono normanno che la sua sposa Costanza, dopo la morte inattesa del nipote, aveva ereditato. Il primo tentativo di Enrico di conquistare l’Italia meridionale fallì in seguito ad una pestilenza, sparsasi nell’esercito alle porte di Napoli; ma più tardi riuscì a occupare la regione e a farsi incoronare re di Sicilia.

Il Papa fu grandemente indignato per questi avvenimenti, anche perché Enrico si rifiutava di prestargli il giuramento feudale; inoltre, l’imperatore si era permesso dei soprusi nell’occupazione di sedi vescovili e nei contatti con lo Stato Pontificio; teneva anche imprigionato il re Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra, il quale fu liberato solo dopo il pagamento di un alto riscatto e della prestazione del giuramento di dipendenza feudale.

I rapporti fra la Curia e l’imperatore furono per qualche tempo interrotti; ulteriori misure il papa non osò prendere.

Quando Enrico si assunse a Bari l’impresa di una crociata, le relazioni ebbero di nuovo un miglioramento: prendendo come punto di partenza la Sicilia, egli voleva estendere il dominio germanico sul Mediterraneo orientale fino alla Siria; voleva anche trasformare l’impero germanico in una monarchia ereditaria, per cui dovevano essere fatte ampie concessioni materiali ai principi tedeschi, ai vescovi e alla Curia. Ma in mezzo a questi preparativi per un dominio mondiale, che sarebbe diventato pericoloso anche per il papato, l’imperatore fu colto da una morte improvvisa (aveva 32 anni); pochi mesi dopo morì anche il Papa.

 

 

ATTIVITA’ MISSIONARIA DELLA CHIESA E CROCIATE

 

Nel corso dei secoli X e XI la religione cristiana era stata portata fra gli Slavi dell’Elba (Vendi), ma poi era stata in gran parte sradicata da insurrezioni pagane.

Nel XII secolo fu intrapresa di nuovo un’opera di evangelizzazione con maggior successo, non solo con mezzi puramente religiosi e spirituali, ma soprattutto mediante azioni belliche intraprese dai principi delle nazioni limitrofe, per scopi religiosi e politici insieme.

In quest’opera prestarono inestimabili servizi i nuovi ordini dei Cistercensi e dei Premostratensi: mentre con il loro aiuto sorgevano nei paesi assoggettati numerosi monasteri e parrocchie, si riuscì a diffondere fra quei popoli il seme di un cristianesimo autentico, soppiantando un po’ alla volta il paganesimo.

Presso i Vendi, stanziati fra l’Elba e l’Oder, sorsero per il cristianesimo tempi migliori quando il principe degli Obotriti, Enrico, figlio dell’ucciso Godescalco, riuscì a ripristinare il regno di suo padre.

Sotto l’imperatore Lotario III e gli imperatori svevi, fu ripresa con energia la politica orientale degli Ottoni, come un interesse di tutto l’impero.

La crociata contro i Vendi, condotta dai principi sassoni nel 1147 ed equiparata alle crociate in Terra Santa, si iniziò con la parola d’ordine “morte o conversione dei pagani”, ma ebbe poi un risultato precario e fece divampare l’odio delle popolazioni slave.

Ad una conclusione del conflitto condusse soltanto l’opera, in parte bellica e in parte pacifica, del marchese Alberto l’Orso di Brandeburgo e del duca Enrico il Leone di Sassonia e Baviera. Il principe degli Obotriti Pribislao si fece battezzare. Nelle zone disabitate subentrarono i colonizzatori della Germania inferiore, che fondarono chiese e monasteri.

Intorno al 1200, la cultura cristiana e germanica si era ormai affermata nel paese dei Vendi e si basava principalmente sull’organizzazione parrocchiale.

Una pacifica opera missionaria acquistò alla religione cattolica i Pomerani, appartenenti per stirpe ai Vendi, dopo che il duca Boleslao III di Polonia li ebbe sottomessi al suo dominio. L’accettazione del cristianesimo era stata la condizione della pace (il duca di Pomerania Ratislao e la sua sposa erano già cristiani).

La prima missione dello spagnolo Bernardo, che era stato prima eremita e vescovo in Italia, fallì completamente, perché egli predicava a quel popolo amante dello sfarzo in veste troppo misera.

Più considerevole fu il successo del vescovo Ottone di Bamberga, che si assunse quel compito per invito di Boleslao. Accompagnato da circa 20 ecclesiastici, “l’apostolo della Pomerania” apparve nel 1124 nel paese, con tutto lo sfarzo di un principe dell’impero e di un legato papale, battezzando in pochi mesi più di 22.000 uomini e organizzando l’intera vita ecclesiastica della regione. In seguito ad una crisi, una 2a spedizione missionaria di Ottone riaffermò ed estese le conquiste precedenti.

Anche qui si eressero numerosi monasteri, che favorirono gradatamente la germanizzazione del paese.

Presso la stirpe pagana dei Prussiani, residenti fra la Vistola e il Memel, e presso i Livoni, stanziati sul golfo di Riga, si fecero dei tentativi missionari, che però riportarono scarsi successi.

Fra i Prussiani esercitò la sua attività s. Adalberto, vescovo di Praga, che però fu ucciso; il vescovo missionario Bruno di Querfurt, figlio di un conte sassone, amico e discepolo di s. Romualdo, che aveva prima operato presso gli Ungheresi, subì il martirio insieme a 18 compagni, tutti decapitati.

Fra i Livoni giunse il canonico agostiniano Mainardo, che fondò una chiesa sulla Duna e fu consacrato vescovo con dipendenza da Brema.

Ma l’opera di conversione procedeva con lentezza e una reazione pagana tornò ad annullare le conquiste fatte.

 

Le crociate sono grandiose imprese belliche condotte dall’occidente cristiano per la riconquista della Palestina e derivano:

-         dai pellegrinaggi in Terra Santa, praticati fin dai tempi antichi;

-         dall’idea della guerra santa contro gli infedeli.

A renderle possibili contribuì il fatto che in occidente si era ormai formata una vera e propria classe di guerrieri, la cavalleria, il cui ardore combattivo fu indirizzato dalla Chiesa verso fini religiosi.

Dopo che i maomettani avevano occupato la Terra Santa, i pellegrinaggi poterono continuare ma con molte difficoltà; la situazione divenne molto più grave quando la dinastia arabo-persiana acquistò il dominio dell’Egitto e della Palestina, e quando la Siria e la Palestina caddero interamente nelle mani dei rozzi Turchi Selgiucidi: i cristiani indigeni patirono oppressione e maltrattamenti, mentre i pellegrini mettevano a rischio la vita.

In occidente questa situazione fu sentita come un’infamia per il nome cristiano e si prese sempre più in considerazione il progetto di strappare ai Saraceni la Terra Santa, per ricostituirvi il dominio cristiano.

Il combattivo Papa Gregorio VII già nel 1074 aveva levato un appello per una crociata, ma a causa della lotta per le investiture non si poté realizzare.

Successo più vivo ebbe 20 anni dopo l’appello del Papa Urbano II, che l’imperatore Alessio I Comneno di Costantinopoli aveva chiamato in aiuto, poiché i Greci subivano sempre più gravemente la minaccia dei saraceni stanziati nell’Asia Minore. Si diede inizio alla prima crociata.

Migliaia di volenterosi si fecero applicare sulla spalla destra una croce rossa, segno della loro decisione; schiere di crociati si raccolsero nei mesi successivi per la parola di infiammati predicatori, fra cui occupa un posto di rilievo l’eremita Pietro d’Amiens, che la leggenda descrive come il vero promotore dell’impresa.

I crociati che convennero per questo pellegrinaggio armato erano quasi interamente Francesi e Normanni dell’Italia meridionale; dall’impero germanico erano venuti dei Lorenesi di lingua francese, sotto il comando del nobile conte Goffredo di Buglione, duca della bassa Lorena, e dei suoi fratelli Baldovino ed Eustachio.

L’entusiasmo religioso rappresentava per la maggior parte dei crociati l’impulso principale, anche se in concomitanza contribuirono pure ragioni profane, come il desiderio d’azione e il piacere dell’avventura propri della cavalleria, le strettezze economiche e la speranza di ricchi bottini ed acquisti.

Urbano diede ai vari eserciti che si andavano formando un valente capo comune, il vescovo Ademaro di Puy; inoltre, promise ai crociati un’indulgenza plenaria da tutte le pene spirituali e protesse le loro persone, le loro famiglie e i loro beni rimasti in patria con una “tregua di Dio” di 3 anni.

Riassumendo, quindi, alla nascita della 1a crociata contribuirono:

1-     il pellegrinaggio penitenziale;

2-     la lotta armata per la difesa (non per l’attacco).

Infatti, a chi voleva andare in Terra Santa per difenderla dall’attacco dei Turchi, ciò equivaleva a cammino penitenziale; naturalmente, il fattore penitenziario fu primario rispetto a quello armato.

Le crociate vere e proprie furono le prime 7, mentre le altre 2 no, perché i signori veneziani andarono solo per saccheggiare.

Le schiere principali dei guerrieri, che seguendo il corso del Danubio si erano dirette verso Costantinopoli, erano state precedute da orde secondarie di contadini e cavalieri, che si erano segnalati lungo il Reno per crudeli carneficine di ebrei; durante la marcia verso l’Ungheria e la Bulgaria, essi furono in gran parte vittima della loro sfrenatezza, mentre i superstiti che arrivarono in Asia Minore furono molto assottigliati dai combattimenti con i Saraceni.

Dopo strapazzi e pericoli indicibili, nei quali migliaia di combattenti perdettero la vita, l’esercito crociato riuscì nel 1099 a conquistare Gerusalemme, dopo un assedio di 4,5 settimane e non senza compiere un terribile eccidio nella Città Santa. Il dominio del luogo fu assunto da Goffredo di Buglione come “Protettore del Santo Sepolcro”; egli sconfisse un esercito egiziano presso Ascalona, ma poco dopo morì. Gli successe il fratello Baldovino di Edessa, col titolo di re di Gerusalemme.

La situazione in Palestina e in Siria continuò ad essere molto critica: non solo i Saraceni, ma anche i Bizantini erano ostili. Nel 1144 la città di Edessa fu tolta al dominio crociato dal sultano Zenki di Mossul e Haleb: ciò provocò grande costernazione in occidente.

Nel 1147 fu organizzata la seconda crociata, soprattutto per opera del Papa Eugenio III e di s. Bernardo, al quale ne era stata affidata la predicazione. Vi presero parte i più eminenti sovrani d’occidente, come il re Luigi VII di Francia e il re Corrado III di Germania; anche il giovane duca Federico Barbarossa di Svevia, nipote di Corrado, prese parte all’impresa, insieme a molti signori della Germania meridionale.

Ma i grandiosi disegni dei crociati fallirono completamente, anche per colpa dei Bizantini che tennero un atteggiamento molto ambiguo. Gli eserciti tedeschi e francesi, che ancora erano marciati verso Costantinopoli seguendo il corso del Danubio, soggiacquero in massima parte agli attacchi dei Turchi in Asia Minore, oppure caddero vittima degli stenti e delle malattie. Con l’aiuto dei guerrieri fiunti in Siria per via di mare, nel 1148 i re pellegrini intrapresero una spedizione contro Damasco, ma anche questa non portò ad alcun risultato, a causa della disunione dei crociati e del tradimento degli abitanti di Gerusalemme. L’unico successo degno di rilievo fu la conquista della città di Lisbona, per cui crociati tedeschi e inglesi prestarono al re Alfonso I del Portogallo il loro aiuto.

La conclusione sfortunata di questa seconda crociata provocò una grande delusione in occidente e fu motivo di amari rimproveri rivolti da diversi lati a s. Bernardo, rimproveri che però egli respinse richiamando l’attenzione sulla peccaminosa condotta di tanti crociati.

I nemici si sentirono così incoraggiati ad ulteriori assalti:

-         il sultano Nureddin, figlio di Zenki, che aveva stabilito la sua residenza a Damasco, diede motivo di grandi preoccupazioni ai cristiani;

-         il regno di Gerusalemme, sul cui trono dopo la morte di Baldovino si erano succeduti re giovani e incapaci, riusciva ormai a resistere solo a stento;

-         i cristiani trovarono un oppositore potentissimo nel sultano Saladino, che aveva ottenuto il dominio dell’Egitto e aveva acquistato Damasco e la Mesopotamia, mentre si era riproposto come scopo della sua vita la riconquista di Gerusalemme come città santa dell’Islam;

-         nel 1187, nella battaglia decisiva presso il lago di Tiberiade, il re di Gerusalemme fu fatto prigioniero da Saladino e la città di Gerusalemme si arrese (ai cristiani occidentali rimasero così solo poche città fortificate, come Tiro, Tripoli e Antiochia).

La notizia della sconfitta generò nuova agitazione in occidente e si fecero subito i preparativi per una nuova spedizione: il Papa Gregorio VIII rivolse un energico appello al mondo cristiano; Clemente III non fu da meno nella sua opera a favore della terza crociata; in Francia e in Inghilterra fu raccolta un’apposita “decima contro Saladino”. Si allestì un’impresa gigantesca, guidata dai 3 più potenti monarchi d’occidente, che fu l’ultima crociata a carattere universale e rappresentò il vertice di tutto il movimento. Ne fu il capo l’imperatore Federico Barbarossa, che partì da Ratisbona con un esercito ottimamente equipaggiato.

Nonostante tutte le ostilità dei Bulgari e dei Greci, l’esercito arrivò in Asia Minore in buone condizioni e vinse alle porte di Iconio, ma in quella città impraticabile subì gravi perdite per le privazioni e gli assalti del nemico. Quando lo stesso imperatore che guidava la crociata annegò nel fiume Salef della Cilicia, l’impresa germanica minacciò di naufragare completamente; il duca Federico di Svevia, figlio dell’imperatore morto, raccolse poche migliaia di uomini nell’accampamento dinanzi alla città di Accon, che il re Guido di Gerusalemme, tornato in libertà, stava assediando, ma morì anche lui. Giunsero allora per via di mare i re Filippo II Augusto di Francia e Riccardo I Cuor di Leone d’Inghilterra, i quali permisero la conquista della città di Accon. Questa vittoria e l’acquisto dell’importante isola di Cipro, che il re Riccardo aveva già effettuato durante il suo viaggio d’andata, furono gli unici successi notevoli della crociata. Le discordie fra i re pellegrini e i principi di Gerusalemme e di Tiro ostacolarono ulteriori imprese di qualche portata. Il re di Francia e il duca Leopoldo d’Austria intrapresero irritati il viaggio di ritorno, quest’ultimo con animo gravemente offeso perché l’altero inglese gli aveva strappato il vessillo (egli si vendicò più tardi contro di lui, facendolo prigioniero). Riccardo Cuor di Leone rimase in Siria e ottenne alcune vittorie sui Saraceni, ma non riuscì a realizzare la progettata spedizione contro Gerusalemme: la sua incostanza, la sua crudeltà e la sua inclinazione verso le avventure erano molto nocive. La Città Santa, perciò, rimase in mano agli infedeli. Alla sua partenza, Riccardo stipulò un trattato con Saladino, col quale venivano concessi ai cristiani il possesso della striscia costiera da Giaffa a Tiro, la libera possibilità di pellegrinare senz’armi a Gerusalemme e un armistizio di 3 anni (un risultato misero, se si considera che questa fu la più grande crociata).

Nel 1193 morì Saladino, il terribile avversario dei cristiani, e si poterono mantenere a lungo gli acquisti effettuati.

Nella crociata germanica, per opera dell’esercito crociato tedesco, che l’imperatore Enrico VI aveva inviato in Siria (più per ragioni politiche che religiose), questi acquisti furono ampliati verso il nord, con la conquista di Beirut; inoltre, la congiunzione del regno di Gerusalemme con Tripoli e Antiochia fu ripristinata. Però, l’immatura morte dell’imperatore, fece ritornare in patria i crociati.

Anche se lo scopo principale delle crociate, cioè il ripristino del dominio cristiano in Terra Santa, non fu conseguito, esse tuttavia non furono uno spreco di beni e di vite umane. Certamente nel corso delle crociate il puro entusiasmo religiosi cedette spesso a interessi di carattere materiale e politico, ma nel loro insieme esse rimangono una splendida manifestazione dello spirito religioso e dell’unità ecclesiastica e culturale dell’occidente.

Fatti importantissimi furono:

-         l’aver respinto per secoli il pericolo ancora incombente sull’occidente per parte dell’Islam,

-         l’aver spezzato il dominio navale dei Saraceni sul Mediterraneo,

-         l’aver assicurato la liberazione della Penisola Iberica dal giogo dei Mori.

Ancor più rilevanti furono gli effetti delle crociate in campo spirituale ed economico: il contatto con la cultura bizantina ed araba, per molti aspetti più progredita, portò un vivacissimo stimolo per le regioni occidentali meno evolute e ne allargò considerevolmente gli orizzonti; ciò si rivelò non soltanto nel fiorire del commercio e dell’industria, della cavalleria e della borghesia cittadina, ma anche nei campi dell’arte, della tecnica e delle scienze, dell’economia popolare e dell’amministrazione statale.

Il papato, sotto la cui guida le nazioni occidentali si unirono nella comune impresa (idea gerarchica delle crociate), vide aumentare notevolmente il suo prestigio e la sua influenza sui sovrani e sulle nazioni europee.

Inevitabile lato negativo furono alcune conseguenze nocive delle crociate, come:

-         la penetrazione in occidente di alcune eresie orientali,

-         il diffondersi del lusso orientale, della dissolutezza nei costumi e di una mentalità razionalistica-liberale in filosofia,

-         il ridestarsi di un laicismo consapevole di sé e tendente a sottrarsi alla guida della Chiesa.

Le imprese dei crociati facilitarono notevolmente la lotta contro la potenza maomettana, nel meridione e nell’occidente dell’Europa, e la riconquista di territori che erano stati una volta cristiani. La Sicilia fu strappata completamente agli Arabi dai Normanni.

Nella Spagna infuriarono per secoli aspre lotte, nel corso dei quali il dominio dei Mori, che si era suddiviso in diversi Emirati, fu considerevolmente circoscritto.

Ad una specie di crociata in Spagna, favorita dal Papa Alessandro II con una totale remissione delle pene spirituali, presero parte anche molti cavalieri francesi: nel 1085 il re Alfonso VI di Castiglia e Leon riconquistò l’antica capitale visigota Toledo e si formarono così 3 regni cristiani (Aragona a nord-est, Castiglia e Leon al centro, Portogallo a ovest); in queste lotte si distinse in modo speciale il celebratissimo eroe nazionale Rodrigo Diaz de Vivar, detto Cid (arabo Sidi= signore) e Campeador (=combattente), il quale però all’occasione non si fece scrupolo di vendere i suoi servigi anche a principi mori.

Nella battaglia decisiva di Navas de Tolosa Alfonso VIII di Castiglia riportò nel 1212 una splendida vittoria sul califfo degli Almohadi. Anche qui gli ordini cavallereschi religiosi prestarono valido aiuto contro l’Islam e il papato rivolse una particolare attenzione alla Spagna, per il pericolo arabo che la minacciava.

Re Ferdinando III il Santo di Castiglia conquistò Cordova e Siviglia e circoscrisse i Mori nel piccolo regno di Granata, nel meridione.

Col re Ferdinando II d’Aragona e la consorte Isabella di Castiglia, detti “i re cattolici” (cioè signori universali, per l’unione personale dei loro regni), i Mori nel 1492 furono cacciati anche da quest’ultimo avanzo delle loro conquiste.

Il movimento delle crociate fu vivo fino alla metà del XIII secolo, anche se le crociate di questo periodo non furono più, come le prime, imprese collettive dell’intero mondo cristiano occidentale: erano, in sostanza, spedizioni guidate dai singoli sovrani e da singole nazioni. Esse non riuscirono neppure a realizzare il loro scopo fondamentale, cioè la riconquista dei Luoghi Santi; anzi, spesso furono deviate dalla loro meta e non raggiunsero neppure la Palestina.

L’entusiasmo per la Terra Santa andò sempre più affievolendosi, perché c’era chi disperava della possibilità di un esito positivo e chi addirittura metteva in dubbio che simili imprese fossero gradite a Dio. in questo stato di cose, non si poté impedire la perdita definitiva di Gerusalemme e degli altri Luoghi Santi.

La quarta crociata, che non merita neppure questo nome per lo svolgimento che ebbe, fu frutto del grande Papa Innocenzo III, che la bandì all’inizio del suo pontificato e impose agli ecclesiastici il pagamento di una decima a favore di essa, nella misura di 1/40 delle loro rendite.

L’esercito crociato, costituito in massima parte dai Francesi, doveva dirigersi in un primo momento verso l’Egitto, su navi veneziane, ma l’astuto doge Enrico Dandolo se ne servì prima per la conquista della città di Zara in Dalmazia; di qui la spedizione, nonostante il divieto pontificio, fece rotta verso Costantinopoli, allo scopo di aiutare l’imperatore Isacco II Angelo e suo figlio Alessio IV, rispettivamente suocero e cognato del re Filippo di Svevia, a riconquistare il trono perduto.

Ben presto scoppiarono delle controversie fra gli stessi alleati. Costantinopoli fu allora conquistata per la 2a volta dagli occidentali e fu saccheggiata senza pietà, per cui andarono distrutti anche numerosissime opere d’arte e monumenti di gran pregio.

Quale forza avesse ancora l’idea della crociata a quel tempo, lo dimostra la fantastica impresa della cosiddetta crociata dei fanciulli nel 1212: migliaia di fanciulli si radunarono in Francia e in Germania e, nonostante gli ammonimenti a loro rivolti dagli adulti (e specialmente dai sacerdoti), si diressero verso il Meridione, sorretti dalla convinzione che la grazia di Dio si sarebbe servita dei piccoli per ottenere quello che superbi eserciti non erano stati in grado di raggiungere. La spedizione finì in modo miserevole: i fanciulli francesi in parte perirono in un naufragio nel Mediterraneo e in parte caddero nelle mani dei mercanti di schiavi; quelli tedeschi morirono per gli strapazzi del cammino, mentre attraversavano le Alpi in direzione di Genova. Solo pochi superstiti giunsero a Brindisi e là furono indotti a ritornare.

 

TENDENZE ERETICHE E LORO REPRESSIONE

 

Nell’alto Medioevo in occidente i fenomeni di eresia erano stati solo pochi casi sporadici e ristretti a piccoli circoli di teologi, ma nel nuovo periodo eruppero impetuosamente grandi correnti antiecclesiastiche di carattere popolare, che si diffusero in gran parte dell’Europa.

Erano:

-         in parte delle diramazioni delle vecchie sette gnostiche e manichee;

-         in parte nuove eresie, derivanti dall’affermazione troppo spinta di certi ideali di riforma o dallo sviluppo disordinato di una speculazione piena di fanatismo.

L’apparire di tali sette popolari rivela che in quel tempo, pur in mezzo allo splendore e alla floridezza delle istituzioni ecclesiastiche, esistevano gravi mancanze e difetti.

La setta più importante del tempo è quella dei catari (=puri), che si ricollega all’eresia neomanichea dei pauliciani nei Balcani, trapiantata in occidente attraverso il commercio e le crociate e quivi fusa con alcune tendenze antiecclesiastiche e con i residui del vecchio manicheismo, che vi vegetavano allo stato latente fin dall’antichità.

Questa pericolosa eresia fece la sua comparsa in Francia, in Italia e in Germania.

I catari francesi, detti anche albigesi dal nome del loro centro principale (la città di Albi), formavano una chiesa segreta organizzata, nella quale il pensiero dualista e l’ostilità contro la Chiesa cattolica si esprimevano nella maniera più aspra.

Sebbene i catari fossero divisi in una serie di gruppi privi di collegamento unitario fra di loro, le loro concezioni fondamentali erano sostanzialmente le stesse:

-         dottrina dualista (un doppio principio eterno, del bene e del male),

-         deprezzamento del mondo materiale,

-         negazione della libera volontà e della risurrezione della carne,

-         ascetica severa.

Il nucleo centrale della setta era costituito dai perfetti o apostoli, che dovevano ripristinare il cristianesimo della Chiesa primitiva, con l’esercizio della povertà e la predicazione ambulante; essi dovevano astenersi rigorosamente dal matrimonio, dalla proprietà di cose terrene e dal gustare i cibi animali (tra di essi c’erano vescovi e diaconi, e forse anche un Papa). Allo stato di perfezione si arrivava dopo un lungo periodo di prova (catecumenato), ricevendo il battesimo dello spirito, l’unico sacramento dei catari, che veniva conferito dai perfetti con l’imposizione delle mani e la consegna del Padre nostro come preghiera perenne; se il perfetto cadeva in peccato mortale, violando una delle obbligazioni sopra menzionate, il sacramento poteva essere replicato.

La massa dei semplici fedeli, che per lo più rimanevano esternamente uniti alla Chiesa cattolica, assumeva solo l’obbligo di ricevere prima della morte il battesimo dello spirito, indispensabile per la salvezza.

Molto discutibile fu il modo di fare di alcuni perfetti, che, in pericolo di morte, avevano ricevuto il battesimo dello spirito, e poi, per evitare la violazione degli obblighi assunti, preferivano lasciarsi morire di fame o ricevevano la morte dai loro familiari.

In relazione con la setta dei catari, c’erano molte altre sette di fanatici.

L’olandese Tanchelmo, un laico, all’inizio del XII secolo si levò violentemente contro gli ecclesiastici e dichiarò invalida la loro amministrazione dei sacramenti; inoltre, volle farsi credere figlio di Dio e si fidanzò pubblicamente con un’immagine della Madonna. Nel 1151 fu ucciso da un sacerdote.

Il bretone Eudone o Eone di Stella si fece annunziatore di idee apocalittiche e affermò di essere il giudice dell’ultimo giorno; si narra che applicò a se stesso le parole della preghiera ecclesiastica: “colui che verrà a giudicare i vivi e i morti”. Nel sinodo di Reims del 1148 fu considerato come un alienato mentale e condannato a reclusione caustrale, dove presto morì.

 

Più lunga fu l’attività dei pietrobrusiani nel sud-est della Francia: il loro fondatore, il sacerdote Pietro di Bruys, predicò per 20 anni contro il battesimo dei bambini, l’Eucaristia e la Messa, gli edifici ecclesiastici, la venerazione della croce, ecc., e riscosse larghi consensi fra la popolazione; alla fine, però, i cittadini di un paese presso Arles lo arsero a furor di popolo, nel rogo in cui egli voleva bruciare la croce. Alla testa dei suoi esaltati seguaci, che assunsero anche elementi catari, subentrò allora l’ex benedettino e predicatore del duomo di Le Mans Enrico, detto erroneamente di Losanna, il quale svolse un’attività agitatoria contro la Chiesa e il clero, e fu combattuto anche da s. Bernardo. Contro i pietrobrusiani e gli enriciani fu diretto un canone del concilio lateranense del 1139.

I passagi, una piccola setta dell’Italia settentrionale, volevano l’osservanza letterale della legge mosaica (senza i sacrifici cruenti); essi, inoltre, negavano la divinità di Cristo e, come i valdesi, lottavano contro l’organizzazione visibile della Chiesa.

Siccome la ricchezza e la potenza della Chiesa apparivano spesso come una fonte di gravi mali, in molte anime pie si destò il nobile desiderio di ripristinare la vita povera di Gesù e della Chiesa primitiva, per poter così influire più efficacemente sul popolo con la parola e con l’esempio. Uomini come Roberto di Arbrissel, Norberto di Xanten, Francesco d’Assisi e i suoi compagni, coltivarono l’ideale della povertà apostolica e della predicazione ambulante, con dedizione totale e con il più sereno accordo con la Chiesa.

Simili ad essi è, nel suo inizio, il gruppo dei predicatori laici detti valdesi o valdesi, che solo in seguito si trovò in opposizione con la Chiesa e si trasformò in una setta. Fondatore fu il ricco mercante Valdo o Valdès a Lione, che, profondamente scosso dalla lettura delle Scritture e dalla leggenda di s. Alessio, ruppe ogni legame con il mondo e affidò i suoi possedimenti in parte alla sua sposa e in parte ai poveri. Uomini e donne con gli stessi ideali si associarono al suo seguito: mettendo in pratica l’istruzione del Vangelo, essi si misero in viaggio a 2 a 2, in apostolica povertà e vestiti di un semplice saio, esercitando in forma ambulante la predicazione di penitenza.

Il movimento in breve si diffuse e abbracciò anche gli umiliati della Lombardia, una confraternita di laici tessitori e lanaioli, dai quali più tardi si sviluppò un vero e proprio Ordine.

Siccome però i valdesi, detti anche poveri di Lione o lionesi (per la loro origine) oppure sabbatati o insabbatati (per l’uso delle scarpe di legno, cioè le sabots), si dedicarono alla predicazione della Parola di Dio senza l’autorizzazione ecclesiastica e si erigevano a giudici dei costumi del clero, l’arcivescovo di Lione interdisse loro la predica e li bandì. Valdo, allora, si rivolse al Papa Alessandro III, il quale decise che essi potevano predicare solo previa autorizzazione ecclesiastica. A questa prescrizione non seppero assoggettarsi che per poco tempo. L’opposizione contro l’autorità ecclesiastica, da loro motivata col il richiamo ad un testo degli Atti degli Apostoli (5,29), ebbe in conseguenza che il Papa Lucio III li scomunicò con i catari e i passagi.

I valdesi dovettero allora ritirarsi a vita clandestina, raccogliendo segretamente seguaci e simpatizzanti fra i secolari che davano loro ospitalità, poiché anche essi (come i perfetti) avevano rinunciato al lavoro manuale e si dedicavano esclusivamente alla predicazione ambulante e all’assistenza pastorale dei loro adepti. Essi emettevano il triplice voto di povertà, castità e obbedienza verso i loro superiori, cioè verso Valdo stesso quale incaricato di Dio e verso i vescovi, i presbiteri e i diacono da lui ordinati. La Sacra Scrittura, da essi tradotta nelle lingue volgari e da essi caldamente raccomandata per la lettura, aveva valore di norma dottrinale assoluta e di codice giuridico.

La setta dei valdesi non riuscì a mantenere l’unità per molto tempo:

-         i Lombardi, malgrado l’opposizione di Valdo, volevano avere l’elezione e l’ordinazione di propri pastori e conservare le loro associazioni di lavoratori, cioè la pratica del lavoro manuale retribuito;

-         i valdesi di Francia, nonostante le loro dottrine eretiche, mantenevano un certo legame con la Chiesa cattolica e partecipavano alla sua liturgia;

-         i valdesi italiani passarono a più aspra opposizione, negando la validità dei sacramenti amministrati dai sacerdoti cattolici e istituendo un servizio liturgico proprio.

L’Inquisizione ebbe molto a che fare con i valdesi: molti furono mandati al rogo, ma molti altri furono riconquistati con persuasione pacifica.

Oggi esistono circa 30.000 valdesi, quasi tutti in Italia.

Le eresie di questo periodo, specialmente quella dei catari, furono combattute molto dalla Chiesa: la repressione appariva come un diritto e un dovere di legittima difesa, per proteggere intatto il tesoro dell’unità di fede e l’ordine sociale cristiano.

La punizione degli eretici si era limitata generalmente a pene spirituali, come la scomunica, la penitenza della flagellazione e la reclusione claustrale. Ma quando il movimento settario aumentò rapidamente, in Italia e nella Francia meridionale furono applicate anche la confisca dei beni, l’incarcerazione, l’impressione del marchio d’infamia e l’esilio; nella Francia settentrionale e in Germania fu applicata anche la pena di morte (impiccagione o rogo).

Inutilmente alcuni uomini eminenti, come s. Bernardo, condannarono l’uso della violenza.

Il tribunale istituito per le cose di fede fu chiamato Inquisizione.

 

 

LA VITA RELIGIOSA ED ECCLESIASTICA

 

In questo periodo la vita ascetica trova una insospettata fioritura: l’attrazione esercitata dai monasteri era fortissima, grazie anche alla tendenza alle riforme e al forte spirito religioso che animavano quel tempo.

La riforma gregoriana e la lotta per la liberazione della Chiesa dalla dipendenza dallo stato trovarono il più valido appoggio nei monasteri della congregazione cluniacense; ma quando, con l’accrescersi delle ricchezze, la disciplina in tale congregazione cominciò ad allentarsi, subentrarono al 1° posto i nuovi ordini dei Cistercensi e dei Premostratensi, che esercitarono una forte attrazione su uomini e donne. Caratteristica dell’ordine di Premontré fu la particolare attenzione rivolta alla cura d’anime, mentre l’ordine benedettino mirava soprattutto alla santificazione individuale dei monaci attraverso la preghiera e il lavoro.

La maggior parte delle nuove fondazioni ebbe origine in Francia, il paese culturalmente più progredito e in cui la riforma religiosa aveva fatto maggiore presa. Questi ordini si collegarono inizialmente alla regola benedettina. Un nuovo elemento nella vita monastica lo portarono i Canonici Regolari, con la regola cosiddetta di s. Agostino.

A Hirsau, nella Selva Nera, esisteva già dall’epoca carolingia (VIII secolo) una piccola chiesa con cella monastica. Il conte Adalberto di Calw, per insistenza del Papa Leone IX suo zio, rinnovò l’istituzione ormai in decadenza e la occupò con monaci del convento riformato di Einsiedeln. Il suo sviluppo iniziò con il 2° abate Guglielmo il Beato, proveniente da un convento di Ratisbona, che si adoperò personalmente presso il Papa Gregorio VII, ottenendo una lettera di protezione papale, che metteva al sicuro il monastero dalle ingerenze dei signori terrieri; egli introdusse anche le consuetudini cluniacensi con un’osservanza severa, che regolava la vita del chiostro fin nei minimi particolari. Fu istituito anche un terz’ordine per uomini e donne che vivevano nel mondo. Nell’erezione di chiese di stile romanico, i monaci di Hirsau furono all’avanguardia. Da esso si diramarono 22 nuove fondazioni monastiche, mentre 68 monasteri già esistenti ebbero da Hirsau la loro riforma. Tuttavia, non si giunse come per Cluny alla formazione di una vera e propria congregazione, perché Hirsau non conservò la sovranità sui conventi da lei riformati. Nel XII secolo iniziò la decadenza economica e disciplinare.

L’ordine dei Certosini si sviluppò da un’associazione ascetica che s. Bruno di Colonia, scolastico del duomo di Reims, aveva fondato nel 1084, insieme a 6 compagni, presso Grenoble. La vita scandalosa e simoniaca dell’arcivescovo Manasse di Reims, deposto e poi scomunicato da Papa Gregorio VII, lo aveva indotto a seguire la sua inclinazione verso una vita di distacco dal mondo. L’indirizzo dell’istituzione era di carattere penitenziale molto severo, fondendo insieme la vita anacoretica e quella cenobitica. La base generale era la regola benedettina, resa però più aspra. Chiamato a Roma come consigliere del Papa Urbano II, Bruno fondò un’altra Certosa in Calabria, dove egli stesso morì. Guigo, il 5° priore della grande Certosa, ne tracciò per iscritto la regola: in essa si accentuava l’obbligo del silenzio quasi perpetuo, dell’astinenza completa dai cibi di carne e della partizione del tempo fra preghiera e lavoro (giardinaggio e trascrizione libri). L’abito dei Certosini era bianco e le celle dei monaci erano per lo più piccole abitazioni, addossate al muro del chiostro a una certa distanza fra di loro e circondate da un piccolo orto. A motivo della sua grande rigidezza, l’ordine si diffuse solo lentamente.

Sulla base della regola benedettina sorsero altre congregazioni minori:

  • l’ordine di Grandmont, che si sviluppò da un eremo fondato da s. Stefano di Thiers nel 1076 nella località desertica di Muret, presso Limoges; dopo la morte di lui, i monaci si trasferirono presso Grandmont, da cui l’ordine prese il nome. Vi era l’obbligo della più rigida povertà. Esso trovò una certa diffusione in Francia e in Inghilterra, ma sorsero presto delle contese fra i monaci per il governo del monastero;

  • l’ordine di Fontevrault, fondato nel 1100 dall’eccellente predicatore penitenziale ambulante Roberto d’Arbrissel e che si distinse per la severità della penitenza e per la particolarità dei doppi monasteri, maschili e femminili; la direzione suprema, anche dei monasteri maschili, spettava alla badessa di Fontevrault, in onore alla Madre di Dio. l’ordine fu soppresso durante la rivoluzione francese;

  • la congregazione dei Monaci scozzesi, nato in Germania e che fu fondato dall’irlandese Marianus Scottus, il quale aveva fondato con 2 compagni un monastero presso Ratisbona; il monastero principale fu l’abbazia di s. Giacomo in Ratisbona, da cui si diramarono altre fondazioni.

L’ordine dei Cistercensi fu posto dall’abate benedettino Roberto di Moleste della diocesi di Langres, quando, scontento per l’insubordinazione dei suoi monaci, fondò nel 1098 a Cistercium, presso Digione, un nuovo monastero riformato, insieme a 20 compagni. In un primo momento egli mirava solo al ripristino della regola benedettina nella sua originaria purezza e severità, ma presto si introdussero dei mutamenti, per cui la fondazione fu un nuovo ordine. Con l’abate Alberico, successore di Roberto, l’abito nero dei benedettini fu sostituito con uno bianco o grigio, di lana greggia. Il terzo abate Stefano compose lo statuto dell’ordine, che si chiamò Charta caritatis: l’aspirazione alla povertà toccava i limiti estremi; perfino nella casa di Dio doveva dominare la più grande semplicità (nessun ornamento e nessuno sfarzo); inoltre, si sottolineava il dovere del lavoro manuale e si disdegnava ogni esenzione dall’obbedienza vescovile. L’ordine rinunciò persino al possesso di chiese proprie con rendita di oblazioni e di decime, e all’appalto dei beni monastici col sistema dei censi e dei livelli, ma lavorò invece direttamente i fondi terrieri, con l’aiuto dei fratelli laici, chiaramente distinti dai professi. L’eccezionale rigore penitenziale non sollecitò l’afflusso dei seguaci e l’istituzione minacciò di perire. Ma s. Bernardo, ritenuto il 2° fondatore dell’ordine, vi impresse l’impronta della sua personalità, tanto che i Cistercensi si chiamarono anche Bernardini. Egli, insieme a 30 compagni, fra cui 4 fratelli e 1 zio, bussò alla porta del monastero, mentre vi era abate Stefano, e iniziò da allora una fioritura sorprendente. Bernardo divenne abate a soli 25 anni e diresse il monastero fino alla sua morte, con saggezza e fermezza. Fu l’uomo della mortificazione severa e dell’isolamento claustrale; tuttavia, costretto dalle necessità del tempo, dovette uscire spesso in mezzo alla vita pubblica, ed esercitò un influsso immenso. In tutta la sua attività egli mirava al dominio spirituale del Regno di Dio sulla terra, da raggiungersi attraverso il libero sviluppo delle forze della fede. Spesso denunciò anche certe manchevolezze della Curia pontificia, ammonendo gli ecclesiastici a reagire contro la tendenza a una vita sempre più mondana.

La fioritura religiosa e lo spirito ascetico del tempo esercitarono la loro influenza anche sul clero secolare e sollecitarono molti ecclesiastici a rinnovare nei capitoli cattedrali e nelle parrocchie maggiori (collegiate) la vita comune o canonica, praticata nell’epoca carolingia e poi caduta in disuso. Alcuni sinodi esortarono i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi ad avere in comune le rendite e l’abitazione e a condurre una vita apostolica, cioè comune.

Molti capitoli cattedrali e collegiate assunsero una regola monastica e, accanto ai canonici secolari, vi furono così i canonici regolati o regolari.

Si diffuse fra di essi particolarmente la cosiddetta regola di s. Agostino, che si considerava opera del grande Padre della Chiesa, mentre in effetti essa è estratta dai suoi insegnamenti ascetici. I capitolari che vivevano secondo questo ordinamento si chiamarono agostiniani o canonici agostiniani. Con l’andare del tempo si andò formando una serie di congregazioni di canonici agostiniani, alcune delle quali abbracciavano anche 100 o più monasteri.

La congregazione agostiniana più grande fu quella dei Premostratensi o Nobertini: il suo fondatore, s. Norberto, proveniente da una famiglia tedesca di Xanten, abbandonò improvvisamente la vita mondana, che aveva condotto come canonico e cappellano di corte presso Enrico V, e si diede in un primo tempo all’attività di predicatore ambulante nel Reno inferiore e in Francia; nel 11120 egli fondò nella valle di Premontré un monastero esemplare di chierici che conducevano una vita rigidamente ascetica. La regola era quella agostiniana, ma subì anche l’influenza degli statuti cistercensi e delle consuetudini di Cluny e di Hirsau. A differenza degli altri ordini, i Premostratensi si dedicarono fin dall’inizio alla predicazione e alla cura d’anime. Grazie al favore che godeva presso Lotario III, Norberto divenne arcivescovo di Magdeburgo e diffuse il suo ordine nel paese dei Vendi (ad oriente dell’Elba), ove i suoi monasteri svolsero una valida opera per la diffusione del cristianesimo. Nell’ordine furono accolte anche le donne (monache premostratensi).

Vi furono anche altri istituti di canonichesse riformate secondo la regola agostiniana, che si associarono in congregazioni, mentre negli antichi monasteri delle benedettine la vita monastica andò morendo, tanto che divennero una specie di pensionati per la sistemazione delle figlie della nobiltà.

All’epoca delle crociate fiorì anche una nuova e originale creazione dello spirito religioso, che rappresenta la congiunzione del monachesimo con la cavalleria: gli ordini cavallereschi. Come compito questi si prefiggevano di accompagnare i pellegrini in Palestina, proteggendoli contro ogni assalto e curandoli in caso di malattia, e di difendere in generale la causa della Terra Santa, combattendo contro l’Islam.

La costituzione degli ordini cavallereschi era fortemente centralizzata: al vertice c’era il Gran Maestro o Maestro Supremo, il cui potere era limitato solo dal capitolo generale; l’ordine si divideva in province, con rettori propri; queste, a loro volta, si dividevano in priorati, con commende e balive.

I grandi ordini cavallereschi erano:

  • i Giovanniti o Ospedalieri, la cui culla fu un ospedale di Gerusalemme dedicato a s. Giovanni Battista, che alcuni commercianti amalfitani avevano eretto intorno al 1050 per i pellegrini in Palestina; con la conquista della Terra Santa da parte degli occidentali nel 1099, l’ordine acquistò importanza. L’esercizio delle armi fu congiunto con l’assistenza agli infermi; ma, con l’andare del tempo, il compito militare si fece preminente, mentre il carattere spirituale e caritatevole divenne meno importante. Si produsse anche una divisione fra i cavalieri armati, cui erano riservate le cariche maggiori, e i fratelli serventi, che sbrigavano il servizio ospedaliero; accanto ad essi c’erano anche i sacerdoti per le funzioni religiose. In sede i Giovanniti portavano un mantello nero con una croce bianca, mentre sul campo di battaglia un’armatura rossa con una croce bianca;

  • i Templari, il più antico dei veri e propri ordini cavallereschi, che sorse intorno al 1119 a Gerusalemme, quando 8 cavalieri francesi, guidati da Ugo di Payens, si unirono in un’associazione e, oltre ai 3 usuali voti (castità, povertà, obbedienza), ne prestarono un 4°, cioè quello di difendere con le armi e di scortare i pellegrini che si recavano a Gerusalemme. Il loro nome derivava dal fatto che il re Baldovino II di Gerusalemme aveva messo a disposizione dei cavalieri un’abitazione nel palazzo reale, che si credeva eretto sul luogo del tempio di Salomone. Essi furono inizialmente molto poveri, ma presto l’ordine ebbe uno splendido sviluppo, specialmente in seguito all’interessamento di s. Bernardo, che ebbe parte notevole nella redazione della regola. Dichiarati esenti da Innocenzo II e dotati di privilegi, i Templari acquistarono gradualmente ricchezze più ampie di tutti gli ordini cavallereschi; anche qui, accanto ai nobili cavalieri, vi erano i fratelli serventi di ceto borghese, per l’esercizio delle armi e per i lavori domestici, e cappellani per le funzioni religiose. L’abito dell’ordine era un mantello bianco con una croce rossa;

  • i Cavalieri Tedeschi o Ordine Teutonico, che fu posto in occasione della 3a crociata, durante l’assedio di Accon; infatti, grazie agli sforzi di alcuni commercianti tedeschi e del duca Federico di Svevia, si formò in quel luogo una confraternita ospedaliera per l’assistenza degli ammalati e per l’esercizio delle armi, che poi divenne un ordine. L’abito era il mantello bianco con una croce nera. Ben presto i cavalieri, favoriti dall’imperatore Federico II, si affermarono in Germania, per cui assunsero un carattere nazionale-tedesco (i Giovanniti e i Templari, invece, erano latini e avevano carattere internazionale) e si dedicarono all’assoggettamento e alla conversione della Prussica pagana, un compito questo militare e missionario che fu portato avanti in grande stile (fu una vera e propria crociata).

 

LO SVILUPPO DELLA SCOLASTICA

 

Il luogo dove principalmente si sviluppò la scolastica primitiva fu la Francia, il paese più progredito in Europa nel campo religioso e culturale; in Germania le scuole cattedrali e monastiche indugiarono un po’ ad aprirsi alle nuove correnti, ma poi lo fecero con intensificato fervore.

Nel suo fondamento filosofico, la scolastica primitiva presenta un’impronta prevalentemente platonico-agostiniana, soprattutto per il valore degli universali (concetti universali):

-         certi filosofi, i realisti estremi, vedevano negli universali qualcosa di reale, cui davano nella mente divina e nello spirito umano una precedenza assoluta rispetto alle singole cose, delle quali venivano considerati gli archetipi;

-         altri filosofi, invece, i nominalisti e i concettualisti, attribuivano esistenza reale solo agli individui e consideravano la specie e i generi come semplici parole o concetti.

Quest’ultima opinione fu presto respinta come un’innovazione pericolosa per la fede e fu sostituita dal realismo platonico.

Nella scolastica il predominio spetta al realismo moderato, il quale ritiene con Aristotele che gli universali si trovino radicati nelle singole cose, e da queste pervengano alla mente umana tramite l’esperienza, la percezione sensibile e l’astrazione.

Padre della scolastica viene considerato s. Anselmo di Aosta, che, di nobile famiglia lombarda residente ad Aosta, fu monaco, maestro e abate nel celebre monastero di Bec in Normandia, nonché arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra. Per quanto egli riponesse molta fiducia alla ragione umana, era ben distante da ogni razionalismo; spiegava che, una volta in possesso di una salda fede, sarebbe negligenza non aspirare ad afferrare l’oggetto anche per via razionale.

Il principale filosofo e teologo fu Pietro Abelardo, la cui vita tragica e romantica ci viene raccontata nella sua autobiografia. Fu maestro celebrato a Parigi; ma l’infelice episodio amoroso con la nipote del canonico Fulberto, Eloisa (sua allieva, che egli amò e sposò), dopo la nota vicenda dell’evirazione, lo portò a rinchiudersi nel monastero di s. Denis. Più tardi insegnò nell’eremo del Paraclito, che lasciò ad Eloisa come monastero di suore, per diventare abate di s. Gildas, nella Bretagna. Anche qui, però, non si fermò a lungo; la sua vita successiva trascorse fra peregrinazioni irrequiete e polemiche teologiche. Fu un maestro insuperabile nella dialettica e provocò un rinnovamento negli studi, rivalutando nella scolastica i filosofi antichi (Platone e Aristotele). In campo teologico, pur scostandosi da s. Anselmo, non si allontanò dalla fede, ma indicava il dubbio come via per raggiungere la verità: affermava l’esigenza di un esame critico dell’oggetto di fede. Egli non fu razionalista e né agnostico, ma un teologo credente, anche se con le sue affermazioni superava spesso i confini tra fede e scienza e per questo suscitò più volte lo scandalo. Alcune sue opere furono condannate come eretiche, per cui Papa Innocenzo II gli impose perpetuo silenzio; egli si sottomise e morì in pace con la Chiesa.

Teologo più chiaro fu Ugo di s. Vittore, che fu rettore della scuola del monastero di s. Vittore a Parigi; fu onorato del soprannome di “secondo Agostino”.

Altro teologo di spicco del XII secolo fu Pietro Lombardo, maestro nella scuola cattedrale a Parigi e poi vescovo di quella città. Subì il forte influsso del metodo “Sic et Non” di Abelardo.

 

 

IL PAPATO E LE POTENZE SECOLARI

 

La morte prematura di Enrico VI nel 1197 liberò il papato dal pericolo incombente di soggiacere alla potenza dell’impero germanico, che si trovò in uno stato di discordia e di turbamento per le lotte di successione.

Al vecchio e debole Celestino III succedette Innocenzo III, il più grande Papa del medioevo, che si sforzò di ripristinare a Roma e nello Stato Pontificio il potere papale: nell’indipendenza territoriale del papato egli vedeva una condizione fondamentale per la libertà della Chiesa. Il prefetto di Roma, che aveva sinora rappresentato l’autorità imperiale, dovette assoggettarsi al Papa, così come il senato eletto dal popolo fu costretto a ritirarsi.

Innocenzo si preoccupò anche della situazione del feudo pontificio dell’Italia meridionale, dove l’autorità germanica era del tutto crollata. Seguendo il desiderio espresso dallo stesso Enrico VI nel suo testamento, egli rilasciò all’imperatrice vedova Costanza e al suo figlioletto Federico II Ruggero una lettera di investitura feudale, ottenendo anche che gli ampi diritti della corona siciliana in campo ecclesiastico venissero notevolmente limitati. Dopo la morte dell’imperatrice, avvenuta poco dopo, il papa assunse, in qualità di signore feudale, la tutela e la reggenza per il giovane principe e si prese cura disinteressata della sua pericolante eredità.

La duplice elezione imperiale del 1198 mise il Papa in una posizione di vantaggio rispetto alla Germania: Ottone, terzo figlio di Enrico I il Leone e nipote del re Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra, fu eletto re dai principi del Basso Reno, in opposizione a Filippo di Svevia, figlio minore del Barbarossa, che era già stato eletto a maggioranza di voti. In conseguenza di ciò, si ebbe una guerra civile devastatrice fra il partito svevo e il partito guelfo. Quest’ultimo chiese al Papa la conferma del suo candidato. Nella speranza che si giungesse ad un accordo fra i principi, Innocenzo indugiò per 2 anni prima di prendere una posizione definitiva, pur non facendo alcun mistero della tradizionale avversione della Curia verso Filippo di Svevia, sul quale gravava già il peso della scomunica, in seguito ai danni da lui inferti allo Stato Pontificio.

Conformemente allo spirito di Gregorio VII, Innocenzo dichiarò che nel caso di un’elezione duplice e controversa spettava al Papa giudicare e decidere sull’elezione del re di Germania: così, la decisione venne presa a favore di Ottone, che si sottomise interamente al Papa e gli fece importanti concessioni. Ma la scelta si rivelò infelice, perché il re, col suo atteggiamento irascibile e violento, si dimostrò indegno della preferenza accordatagli.

Intanto, Filippo di Svevia riuscì ad affermarsi anche se rigettato e scomunicato per una 2a volta; il suo prestigio andò aumentando di anno in anno, tanto che alla fine anche il Papa si riavvicinò a lui e gli fece levare la scomunica. Ma, in modo del tutto inatteso, lo Svevo morì vittima della vendetta privata di un conte.

Allora Ottone IV ottenne rapidamente il riconoscimento universale e si fidanzò anche con Beatrice, la figlia maggiore dell’ucciso; rinnovò le concessioni fatte precedentemente al Papa (riconoscimento dello Stato Pontificio e della supremazia feudale del Papa sul regno di Sicilia) e rinunciò al diritto dell’imperatore di assistere alle elezioni dei vescovi. Queste promesse, però, non erano sincere: nel suo viaggio a Roma del 1209 Ottone rivendicò i diritti dell’impero in Italia e, non appena fu incoronato dal Papa, si accinse a conquistare l’eredità di Federico di Sicilia.

Il Papa lanciò la scomunica contro Ottone e, per suo incitamento, parecchi principi tedeschi cessarono di riconoscere autorità al Guelfo. Inoltre, per prevenire il pericolo di un’unione perpetua dell’Italia meridionale con l’impero germanico, per sollecitazione del Papa fu incoronato re di Sicilia il figlioletto di 1 anno di Federico, Enrico VII.

L’elemento decisivo nella contesa per il trono imperiale fu portato dall’esito della lotta egemonica franco-inglese: mentre Federico era alleato della Francia, Ottone era a fianco di suo zio, Giovanni Senza Terra d’Inghilterra; nella battaglia di Bouvines presso Lilla del 1214, l’imperatore fu clamorosamente battuto da Filippo II Augusto di Francia e la sua potenza fu così infranta, mentre la sua autorità rimase circoscritta ai suoi territori d’origine nella Sassonia. Morì nel 1218 pentito ed assolto dalla scomunica. Federico II fu nuovamente incoronato.

Anche in Inghilterra Innocenzo fece valere la sua decisiva autorità in un grave conflitto: il re Giovanni Senza Terra, fratello e successore di Riccardo Cuor di Leone, rifiutò di riconoscere l’arcivescovo di Canterbury, Stephan Langton, un illustre teologo inglese, eletto per raccomandazione del Papa. Poiché ogni ammonimento rimaneva infruttuoso, il Papa fece proclamare l’interdetto sul paese; poi, in seguito a numerosi atti di violenza compiuti dal re contro chiese ed ecclesiastici, questi fu scomunicato e destituito dal trono. Il re di Francia Filippo II, in qualità di signore feudale di Giovanni per i possedimenti continentali dell’Inghilterra, ebbe il compito di dare esecuzione alla condanna. A questo punto, però, Giovanni fece atto di sottomissione, risarcì le chiese e gli ecclesiastici danneggiati e, per assicurarsi l’appoggio del Papa anche nel futuro, dichiarò l’Inghilterra e l’Irlanda feudo della Santa Sede, obbligandosi al pagamento di un tributo annuo.

Contro l’indebolita monarchia, però, si sollevarono i Grandi d’Inghilterra, sia laici che ecclesiastici, questi ultimi sotto la guida di Langton, specialmente per difendere la libertà delle elezioni canoniche; essi costrinsero Giovanni a fare una serie di importanti concessioni codificate nella Magna Charta, il fondamento della liberale costituzione inglese.

Ne nacquero nuove complicazioni: il re cercò l’aiuto del Papa per sottrarsi all’adempimento delle obbligazioni assunte e Innocenzo condannò la Magna Charta come lesiva dei diritti della Chiesa. Solo la convalida del documento da parte del figlio di Giovanni, Enrico III, condusse ad una conciliazione dei partiti in Inghilterra.

Oltre l’Inghilterra, anche i regnanti di Aragona, del Portogallo e della Bulgaria riconobbero la supremazia temporale del Papa.

Pietro II d’Aragona lo fece con l’intenzione di ingraziarsi il Papa, per ottenere così l’annullamento del suo matrimonio con Maria di Montpellier; ma i suoi piani naufragarono contro l’incorruttibile fermezza del Papa, che difese la saldezza del vincolo matrimoniale cristiano anche di fronte al re Alfonso IX di Leon e Filippo II Augusto di Francia.

Quest’ultimo aveva ripudiato, subito dopo il matrimonio, la sua sposa, una principessa danese, e aveva sposato la contessa Agnese di Merano; la proclamazione dell’interdetto sulla Francia lo indusse a promettere di riconoscere la prima moglie come sposa e regina, anche se la promessa giunse ad esecuzione solo dopo molto tempo, quando ormai Agnese era morta e Filippo aveva fatto nuovi vani tentativi per ottenere il divorzio.

Anche per l’Oriente Innocenzo ebbe cure e preoccupazioni.

In seguito alla 4a crociata, che fu principalmente opera sua, fu fondato a Costantinopoli un impero e un patriarcato latino.

Contro la pericolosa setta dei catari nella Francia meridionale, Innocenzo indisse una crociata, anche se contro quell’eresia servirono maggiormente i nuovi ordini francescano e domenicano, con il loro ideale della povertà e della predicazione ambulante.

Nel 1215 Innocenzo celebrò il IV Concilio Lateranense (il XII ecumenico), in cui vi si presero disposizioni per una nuova crociata e vi si emanarono decreti di riforma per la repressione degli eretici e per il miglioramento della disciplina ecclesiastica; tra le tante cose, si proibì la fondazione di nuovi ordini religiosi e si sancì il dovere della confessione annuale e della comunione pasquale.

L’alto livello di potenza politico-ecclesiastica raggiunto dal papato sotto Innocenzo III non poté venire conservato a lungo.

Federico II di Svevia divenne presto un pericoloso oppositore. I suoi rapporti con la religione e la Chiesa sono ancora discussi: gli mancarono una fede sicura e un profondo spirito religioso. Certe fonti arabiche gli attribuiscono perfino espressioni frivole e sarcastiche nei riguardi della religione e della morale cristiana. La frequenza dei suoi rapporti con Ebrei e Saraceni e la sua dissolutezza morale suscitarono serio scandalo. Tuttavia, i decreti imperiali di Federico parlano il linguaggio di un imperatore cristiano, anche se la sua concezione imperiale era molto secolarizzata. Era anche amico dell’ordine dei Cistercensi e del Gran Maestro dell’ordine Teutonico Ermanno di Salza. Perseguitò gli eretici con leggi rigidissime e fin sul letto di morte manifestò il proposito di mantenersi fedele alla Chiesa.

L’Italia meridionale era il fulcro della sua potenza, tanto che considerava la Germania come una parte di secondaria importanza del suo dominio. Nel 1220 fece eleggere re di Germania il figlio Enrico VII di 9 anni, già da tempo incoronato re di Sicilia: prezzo di tale elezione furono varie concessioni verso i principi ecclesiastici, che divennero così i veri sovrani dei loro territori. Ne conseguì un certo indebolimento del potere imperiale in Germania. Come tutore di Enrico, Federico scelse l’arcivescovo Enghelberto di Colonia, il quale però nel 1225 cadde vittima di una congiura di nobili.

Frattanto, a Innocenzo III era succeduto Onorio III, che non sollevò obiezione per l’elezione di Enrico a re di Germania, per quanto ciò significasse l’infrazione di una promessa fatta da Federico II a Innocenzo III, secondo cui l’autorità di Enrico doveva rimanere limitata al regno di Sicilia, feudo pontificio (la Curia voleva impedire un’unione duratura della Sicilia con l’impero germanico).

Onorio incoronò imperatore Federico e così sperava di ottenere più facilmente la realizzazione di una crociata già promessa da Federico, in occasione dell’incoronazione a re; invece, l’imperatore, preoccupato più per le questioni della Sicilia, continuò a dilazionare la spedizione, e il Papa bonariamente gli concesse un rinvio dopo l’altro. Finalmente, nell’accordo di s. germano presso Monte Cassino del 1225, ri risolse a prendere un atteggiamento più deciso: Federico doveva iniziare la crociata entro 2 anni, pena la scomunica. Prima che scadesse il termine del rinvio, Onorio morì.

Gli succedette Gregorio IX, noto come sostenitore ardente dell’ordine francescano. Teso al mantenimento della supremazia papale, fu un valente giurista come suo zio Innocenzo III, ma fu anche un uomo profondamente religioso.

Quando Federico, dopo aver finalmente iniziato la crociata, arbitrariamente la interruppe, Gregorio non esitò a infliggergli la scomunica: ne nacque una guerra fra papa e imperatore. Federico incitò i Romani alla ribellione (Gregorio dovette fuggire da Roma), mentre le truppe imperiali fecero irruzione nello Stato Pontificio e quelle papali, a fianco dei Lombardi, invasero le Puglie. Di ritorno dalla crociata in Palestina, che finalmente aveva attuata nel 1228, Federico ricacciò i soldati papali, che vennero denominati in quell’occasione clavigeri. Dopo prolungate trattative, si giunse alla pace di s. Germano-Ceprano: l’imperatore ottenne l’assoluzione dalla scomunica, ma dovette promettere alla Curia il risarcimento integrale dei danni e fare diverse concessioni di materia ecclesiastica in Sicilia.

Negli anni seguenti si mantenne la pace. Federico si dedicò all’ordinamento del suo impero e portò la Sicilia ad un più alto livello politico, trasformandola in uno stato fortemente centralizzato con un governo assoluto, retto da funzionari statali, qualcosa di completamente nuovo rispetto ai regimi feudali fino allora in uso.

In Germania egli soffocò la ribellione del figlio Enrico VII e si rivolse contro le città lombarde alleate con lui, deciso a ripristinare l’autorità imperiale in Italia. Sconfitta a Cortenuova nel 1237, la Lega Lombarda era disposta ad accettare una pace onorevole, ma non si piegò ad accettare la resa incondizionata che Federico esigeva; ben presto trovò nel Papa un alleato. Con questi il dispotico sovrano era di nuovo giunto ad una rottura, per aver violato ripetutamente i diritti della Chiesa, e specialmente per aver sposato il proprio figlio naturale Enzo con l’erede della Sardegna, che era feudo papale, nominandolo subito re. Federico aspirava a fare di Roma la capitale del suo impero, riducendo il Papa all’impotenza completa; per difendersi, il Papa gli inflisse per la 2a volta la scomunica. Federico interpretò la punizione come una dichiarazione di guerra, per cui divampò la lotta decisiva. Proclami infuocati, emanati da ambo le parti, lanciarono le più violente accuse: l’imperatore fu definito come “bestia” dell’Apocalisse, precursore dell’Anticristo, miscredente che osava parlare di Mosé, di Cristo e di Maometto come di 3 impostori; il Papa, d’altro canto, era incolpato di essere un turbatore della pace e un fariseo, d’accordo con gli eretici lombardi, e veniva bollato come il “gran drago” e l’Anticristo della fine del mondo. Alla lotta di parole si accompagnava la lotta armata: Federico occupò regioni dello Stato Pontificio, mentre Gregorio indusse i Veneziani a sferrare un attacco in Puglia; inoltre, il Papa, tramite un suo legato, fece eleggere un nuovo re di Germania, senza ottenerne però alcun successo, perché la maggioranza dei principi laici ed ecclesiastici si mantenne fedele all’imperatore. Dopo un certo tempo, il Papa volle convocare a Roma un concilio universale, come l’imperatore stesso aveva auspicato, perché vi si voleva giustificare; ma egli ne ostacolò l’effettuazione. Nel 1241, in seguito alla vittoria navale riportata sui Genovesi presso l’Elba, la lotta imperiale fece prigionieri più di 100 prelati, fra cui 3 cardinali, che erano in viaggio per Roma. Federico, era già col suo esercito alle porte di Roma, dove si era costituito un partito a lui favorevole, quando il vecchio Papa Gregorio morì.

Alla sua morte, fece seguito una sospensione della lotta. Il nuovo Papa, Celestino IV, essendo molto anziano, morì dopo 17 giorni di pontificato. Per la sua elezione, i cardinali si erano isolati per la 1a volta dal mondo circostante.

La cattedra pontificia rimase vacante per quasi 20 mesi, alla fine dei quali venne eletto Innocenzo IV che, come Gregorio IX, era un canonista eminente e un abile diplomatico. Sembrava offrire buone garanzie per il ristabilimento della pace, poiché la sua nobile famiglia genovese aveva fama di essere favorevole all’imperatore, e ben presto si giunse ai preliminari per la stipulazione della pace; però da ambo le parti dominava la diffidenza e non ci si poté accordare sulla questione più importante, quella della Lega Lombarda.

Federico desiderava un incontro personale col Papa, ma Innocenzo IV, timoroso del peggio, vi si sottrasse con una fuga improvvisa a Lione, che allora apparteneva solo di nome all’impero germanico; qui egli fissò la sua sede per i successivi 6 anni e ½; sempre a Lione nel 1245 fu convocato il XIII Concilio ecumenico, che egli stesso aprì con un discorso sulle 5 piaghe della cristianità: le colpe del clero, la rinnovata perdita di Gerusalemme, la situazione precaria dell’impero latino di Costantinopoli, l’irruzione dei Mongoli e l’inimicizia dell’imperatore verso la Chiesa.

L’accusa contro Federico si concretò in spergiuro ripetuto, grave sospetto d’eresia, sacrilegio (per aver fatto prigionieri i prelati presso l’Elba) e oppressione della libertà ecclesiastica nel regno di Sicilia. L’imperatore fu dichiarato colpevole di tutte le imputazioni mossegli, fu di nuovo scomunicato e fu destituito d’ogni onore e dignità, con divieto a tutti i fedeli di prestargli obbedienza. Ai principi di Germania fu rivolto l’invito di procedere ad una nuova elezione.

In tal modo il Papa aveva rotto definitivamente ogni rapporto pacifico con l’imperatore; da quel momento condusse apertamente la lotta per il suo annientamento.

In una sottomissione di Federico non c’era da sperare, anzi egli dichiarò che la sua destituzione non era né giusta e né valida; inoltre, si appropriò del principio caro ai valdesi, secondo cui l’autorità della Chiesa doveva essere circoscritta al campo religioso e il clero doveva essere ricondotto alla povertà apostolica e alla semplicità del cristianesimo primitivo.

Il Papa bandì la crociata contro Federico, concedendo ai partecipanti gli stessi privilegi di cui fruivano le crociate in Terra Santa. Anche la Germania, che si era mantenuta in disparte, vi fu fatalmente coinvolta.

In Italia il prestigio dell’imperatore rimase alto e i suoi oppositori, gli ecclesiastici e i frati mendicanti dovettero sperimentare la ferocia della sua vendetta. Nelle lotte furibonde fra Guelfi e Ghibellini, il paese divenne sempre più campo di devastazioni, tanto che un’ardente desiderio di pace si impadronì della popolazione. Prima, però, che si giungesse ad una decisione, Federico morì nel 1250, vittima di un attacco di dissenteria, dopo essere stato assolto dalla scomunica dal suo amico, l’arcivescovo Berardo di Palermo. Fu sepolto nel duomo di Palermo, accanto ai suoi genitori.

Innocenzo IV, tornato da Lione, era determinato a non tollerare più sul trono imperiale germanico un Hohenstaufen.

Contro Corrado IV, successore di Federico, fece predicare in Germania la crociata e lanciò la scomunica. Quando costui si diresse verso il Sud per prendere possesso della sua eredità, che nel frattempo aveva amministrata il suo fratellastro Manfredi, principe di Taranto, il Papa gli tagliò la strada e offrì la corona siciliana al principe inglese Edmondo, il quale però non fece alcun serio tentativo per conquistarla. Corrado morì nel 1254 a soli 26 anni.

Per il figlio minorenne Corradino assunse la reggenza nell’Italia meridionale Manfredi, che tenne alto il prestigio della casa sveva.

Il nuovo Papa Alessandro IV proseguì la politica curiale avversa agli Hohenstaufen. In Germania, dopo la morte del re Guglielmo d’Olanda, si ebbe di nuovo una doppia elezione: il partito dell’arcivescovo di Colonia elesse il conte Riccardo di Cornovaglia, fratello del re Enrico III d’Inghilterra, mentre il partito dell’arcivescovo di Treviri elesse il re Alfonso X di Pastiglia, un nipote di Filippo di Svevia. In realtà l’impero rimase privo di un capo supremo, dato che Alfonso non mise mai piede in Germania e Riccardo vi si intrattenne solo poche volte; nessuno dei 2 re stranieri esercitò un’influenza considerevole sugli ambienti politici germanici.

Frattanto in Italia Manfredi, malgrado la scomunica papale, combatteva con successo, tanto che i Grandi della Sicilia offrirono direttamente a lui la corona della loro terra; dimentico dei suoi obblighi verso il nipote Corradino, egli si fece incoronare re a Palermo. Gradatamente estese la sua influenza anche nell’Italia centrale e settentrionale, valendosi dell’aiuto dei Ghibellini, e occupò zone dello Stato Pontificio.

Il nuovo Papa Urbano IV, francese di nascita, precedentemente patriarca di Gerusalemme, trovò un mezzo efficace per ostacolare i progressi di Manfredi: egli avviò la politica curiale entro i binari francesi, facendo arricchire il collegio cardinalizio di 6 membri francesi e facendo offrire la corona di Napoli e di Sicilia al conte di Provenza Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX il Santo. Questi l’accettò, nonostante il consiglio negativo dei parenti, e si fece eleggere dai Romani senatore della loro città.

Sotto il pontificato di Clemente IV, anch’egli francese di nascita, si compì il passo decisivo: Carlo d’Angiò scese con un esercito in Italia, ricevette l’investitura feudale sulla Sicilia e, per incarico del Papa, fu incoronato da 5 cardinali a Roma quale re dell’Italia meridionale. Nella battaglia di Benevento, egli riportò la vittoria su Manfredi, che morì nel combattimento.

Nel 1267 fece la sua comparsa in Italia, con un esercito, il 15enne Corradino, duca di Svevia e re di Gerusalemme e di Sicilia, chiamato dalle urgenti invocazioni d’aiuto dei Ghibellini. Anch’egli fu scomunicato dal Papa, insieme al suo seguito. Riportò qualche successo iniziale, ma fu definitivamente sconfitto nella battaglia di Scurcola-Tagliacozzo; durante la fuga, fu tradito e fatto prigioniero; in uno pseudo-processo, per volere di Carlo, fu condannato a morte per alto tradimento e fu decapitato insieme a 10 compagni nel 1268, a Napoli. Il Papa non approvò questa condotta feroce, ma lasciò che gli avvenimenti seguissero il loro corso. Con Corradino si estingueva la nobile casa degli Hohenstaufen, la più fiera stirpe imperiale della storia tedesca.

In seguito alla decadenza dell’impero germanico, la Francia divenne la potenza dominante dell’Europa. In più notevole rappresentante della politica francese in Italia era Carlo I d’Angiò, re di Napoli e di Sicilia, senatore romano e vicario imperiale per la Tuscia. Ma i Papi non poterono rallegrarsi di lui.

Clemente IV per primo deplorò amaramente la prepotenza del suo governo e le sue temerarie violazioni dei diritti della Chiesa. Carlo aveva saputo crearsi anche un seguito di devoti entro il collegio cardinalizio, nel quale c’erano divisioni di partito che si erano moltiplicate in modo preoccupante; ne conseguì che, dopo la morte del Papa, trascorsero più di 2 anni e ½ prima che si potesse ottenere la maggioranza di 2/3, per dare alla Chiesa un nuovo capo.

Fu eletto Papa Gregorio X, le cui preoccupazioni furono subito rivolte alle disastrose condizioni della Terra Santa, all’unione che si prospettava con la chiesa greca e alla riforma della Chiesa.

Nel 1261 Costantinopoli era di nuovo caduta nelle mani dei Greci e l’impero latino (Baldovino II) era crollato. Il conquistatore, l’imperatore Michele VIII Paleologo propose alla Santa Sede di riunire le chiese, per scongiurare il pericolo che si addensava contro di lui dall’occidente; infatti, specialmente da parte francese, da parecchi anni si facevano tentativi per riconquistare l’impero orientale.

Il Papa convocò allora il XIV Concilio ecumenico, che si tenne a Lione nel 1272: per la Terra Santa fu deliberata la riscossione di una decima su tutti i redditi ecclesiastici per 6 anni; ma, quanto ad azioni militari di qualche rilievo, non si ebbe più modo di effettuarne. L’unione con i Greci fu condotta a termine, per quanto l’avversione e l’odio che il popolo e il clero greco nutrivano contro i Latini rappresentasse un ostacolo gravissimo (l’imperatore dovette ricorrere perfino alla violenza per infrangere l’opposizione di una parte del clero). Nelle trattative con gli inviati greci a Lione, si distinse il cardinale-vescovo Bonaventura. I Greci riconobbero l’aggiunta del Filioque nel Credo e il primato del Papa, e accettarono le appellazioni a Roma; poterono però lasciare inalterato il loro rito e la loro liturgia. Nel concilio fu discusso anche il problema della riforma e ciò condusse ad una serie di decreti, intesi a migliorare la disciplina nella Chiesa. In un decreto di riforma si prese un’importante decisione circa l’elezione papale, per impedire le troppe lunghe vacanze al momento della successione: il sistema di elezione già praticato del conclave (riunione di tutti i cardinali in un’abitazione comune, con isolamento dal mondo esterno e graduale diminuzione dei cibi) fu prescritto per legge; tuttavia diversi Papi ne sospesero presto l’esecuzione.

Nell’impero germanico, per le sollecitazioni del Papa, i principi elettori scelsero come nuovo re il conte Rodolfo d’Asburgo, che chiese al Papa il riconoscimento dell’elezione e questi glielo concesse, non prima però che Rodolfo avesse rinnovato tutte le promesse e le concessioni che già Ottone IV e Federico II avevano fatto alla Chiesa romana, e avesse esplicitamente rinunciato all’Italia meridionale a favore di Carlo d’Angiò; purtroppo, però, Rodolfo non riuscì a cingere la corona imperiale, perché Gregorio, che era in ottimi rapporti con lui, morì troppo presto.

In rapida successione si avvicendarono sul soglio pontificio i Papi Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI.

Infine salì sulla cattedra Niccolò III, del casato romano degli Orsini, che purtroppo favorì eccessivamente i suoi parenti (nepotismo); egli ebbe successo nel consolidare ed ampliare lo Stato Pontificio e, dopo lunghe trattative, ottenne che, oltre alla riconquista di Ancona, il re Rodolfo restituisse al patrimonio di s. Pietro anche la Romagna, cioè l’antico esarcato di Ravenna.

Il tirannico re di Napoli Carlo I d’Angiò fu costretto a rinunciare al vicariato imperiale della Tuscia, che Clemente IV gli aveva affidato, e a deporre il titolo onorifico di senatore romano.

Già da allora si vide chiaramente che l’unione delle chiese greca e latina, frutto di interessi politici e non di salde convinzioni, era destinata ad avere breve durata. Il Papa pretese che i Greci non si limitassero a riconoscere come dogmaticamente ortodosso il Filioque, ma lo accogliessero anche nel loro Credo.

Il suo successore Papa Martino IV, un francese, era stato cancelliere del re Luigi IX e subiva l’influenza di Carlo d’Angiò, al quale restituì l’importante carica di senatore. Il re di Napoli stava preparando un’aggressione contro l’impero greco e il Papa scomunicò come fautore dello scisma e dell’eresia l’imperatore Michele, promotore dell’unione; Michele, a questo punto, ruppe i rapporti con Roma, tanto più che si trovava nelle condizioni migliori per farlo, avendo riportato una vittoria presso Belgrado sull’esercito di Carlo d’Angiò. Dopo la sua morte, avvenuta di lì a poco, il figlio Andronico ripristinò pienamente e con ogni rigore lo scisma. Gli ecclesiastici che avevano promosso l’unione furono puniti, mentre il patriarca Giovanni Veccus, attivo fautore di essa, dovette andare in esilio e cedere il seggio di Costantinopoli al patriarca Giuseppe, oppositore dell’unione, che era stato deposto in seguito al concilio di Lione.

La perdita gravissima, che la potenza di Carlo d’Angiò subì con la vittoriosa sollevazione dei Siciliani contro la tirannia francese, fu per il Papa un duro colpo. La rivolta ebbe inizio nel 1282 con i cosiddetti Vespri Siciliani e i ribelli scelsero come loro signore il re Pietro III d’Aragona, marito della figlia di Manfredi, Costanza, al quale Corradino, prima della sua decapitazione, aveva ceduto i suoi diritti su Napoli e la Sicilia. Per quanto Martino impiegasse tutti i mezzi del potere papale per conservare l’autorità di Carlo nel suo feudo (scomunicando Pietro d’Aragona, lanciando l’interdetto sulla Sicilia e proclamando la crociata contro i ribelli), la Sicilia non poté più venire recuperata: i sovrani aragonesi riuscirono ad affermarsi nell’isola e la casa d’Angiò dovette limitare il suo dominio al regno di Napoli.

A Martino succedette Onorio IV, romano del casato dei Savelli come Onorio III.

Seguì Niccolò IV, il primo francescano sul trono papale, prima generale del suo ordine. Egli ebbe stretti rapporti d’amicizia con la famiglia dei Colonna, che gareggiava allora con gli Orsini per ottenere il predominio in Roma.

Dopo la morte di Niccolò IV, la sede papale rimase ancora a lungo vacante, perché i cardinali erano divisi nel partito dei Colonna e in quello degli Orsini; inoltre, il re Carlo II di Napoli, figlio e successore di Carlo I d’Angiò, cercava di interferire nell’elezione con i propri desideri.

Solo dopo 2 anni e 3 mesi si ebbe un’elezione unanime: dopo tanti Papi giuristi, si voleva ora un Pastore del tutto alieno dalla politica, pieno di zelo per la riforma e santo di costumi, che si occupasse energicamente di un rinnovamento nella Chiesa. Gli elettori scelsero finalmente Pietro, il pio eremita del monte Morrone negli Abruzzi, fondatore di un eremo detto dei Morroniti (Celestini); con riluttanza egli accettò e assunse il nome di Celestino V, ma tenne il pontificato solo per 5 mesi. Infatti, fu ben presto evidente che la sua scarsa cultura teologica e la sua assoluta inesperienza politica e diplomatica, accanto al suo bonario candore, lo rendevano del tutto insufficiente ad assolvere il suo compito. Fu vittima dell’influenza oppressiva di egoistici consiglieri e di Carlo II d’Angiò, per amore del quale giunse perfino a trasferire la sua residenza a Napoli; le sue nomine di cardinali furono subordinate prevalentemente ad interessi francesi. Riconoscendo però la propria inadeguatezza e tormentato dai rimorsi, Celestino rinunciò di propria spontanea volontà alla dignità papale, per riprendere la sua diletta vita d’eremita. Questo passo suscitò grande scalpore: ci fu chi lo esaltò (Petrarca) e chi lo riprovò (Dante).

Gli inaspriti avversari del suo successore, Bonifacio VIII, che come cardinale aveva provocato o almeno favorito la decisione di Celestino, dichiararono invalida la sua rinuncia alla cattedra pontificia. Per evitare che si usasse di lui per provocare uno scisma, Bonifacio lo tenne recluso fino alla morte, nel castello di Fiumone presso Anagni. Pochi anni dopo, fu proclamato santo.

NUOVI ORDINI RELIGIOSI

 

Il XIII secolo è caratterizzato da una straordinaria fecondità degli ordini religiosi, nonostante il concilio lateranense del 1215 e il concilio di Lione del 1274 ne proibirono la fondazione di nuovi.

Gli Ordini Mendicanti obbligavano non solo i singoli frati, ma anche i conventi stessi, alla povertà più severa, limitandoli al possesso del minimo indispensabile. Essi dovevano ricavare il loro sostentamento dal lavoro manuale e dalle elemosine raccolte mendicando o elargite dai fedeli di propria spontanea volontà. Quindi, essi fissavano la loro residenza non in luoghi isolati, come gli antichi ordini monastici, ma generalmente nelle città, e si appoggiavano specialmente alla nascente borghesia. Non erano nemmeno più legati al voto della stabilità e non si ritiravano dal mondo, ma svolgevano la loro attività in mezzo ad esso (predicazione e lavoro pastorale). Con entusiasmo e ardore i nuovi ordini si dedicarono alla cura d’anime e mitigarono la crescente tensione fra ricchi e poveri.

La costituzione degli Ordini Mendicanti è rigidamente centralizzata e tendente ad una composizione corporativa delle forze: alla loro testa sta il Generale dell’Ordine, da cui dipendono i ministri o priori delle singole province su cui l’ordine si estende, i quali si riuniscono periodicamente attorno a lui nel capitolo generale (i Francescani ogni 3 anni, i Domenicani 1 volta all’anno inizialmente e poi con minor frequenza), cui compete il potere legislativo sull’intero ordine.

Un’altra particolarità degli Ordini Mendicanti è il terz’ordine, che si aggiunge al primo (ramo maschile) e al secondo (ramo femminile), la cui fondazione risale a s. Francesco d’Assisi, che intendeva rappresentare un surrogato della vita claustrale per uomini e donne sposati, il cui ingresso in convento non era possibile: costoro restavano nel mondo, conservavano famiglia e proprietà, ma si dedicavano a particolari esercizi di preghiera e ad opere di penitenza e d’amore verso il prossimo, sulla guida di certe regole e sotto la direzione del primo ordine.

La parte sempre più attiva che gli Ordini Mendicanti presero nella cura delle anime, la loro esenzione dalla giurisdizione episcopale e i larghi privilegi che ribevettero dai Papi, diedero occasione a vivaci controversie con il clero parrocchiale. Papa Martino IV nel 1281 conferì ai Mendicanti il diritto di poter predicare e confessare; questo comportava non solo la rottura del bando parrocchiale, cioè la competenza esclusiva dei parroci nel loro territorio, ma anche una diminuzione delle loro entrate. Numerose lagnanze determinarono Bonifacio VIII a emanare nel 1300 un decreto, in base al quale i Mendicanti potevano predicare liberi e indisturbati nelle loro chiese e sulle piazze pubbliche (a meno che il vescovo stesso non vi predicasse o vi facesse predicare), ma nelle chiese parrocchiali potevano farlo solo col permesso dei parroci; a confessare erano ammessi solo frati particolarmente idonei, dietro approvazione del vescovo o del Papa; in occasione di sepoltura nelle chiese o nei conventi dei frati mendicanti, si doveva pagare alla chiesa parrocchiale ¼ della tassa funeratizia. Questi provvedimenti non bastarono a far cessare le controversie, poiché entrambe le parti in causa erano rimaste insoddisfatte e cercavano di sopraffarsi vicendevolmente nell’esercizio dei loro diritti. La soluzione definitiva riuscì a portarla solo il concilio di Trento.

Il più importante e il più antico degli Ordini Mendicanti è quello dei Frati Minori o Francescani: il fondatore, s. Francesco, nacque ad Assisi nel 1181 dall’agiato commerciante Pietro Bernardone ed ebbe al battesimo il nome di Giovanni; dopo una giovinezza piena di ambiziosi sogni cavallereschi, subì nel 1206 una profonda trasformazione interiore, che lo portò ad abbracciare una vita penitente di preghiera e di mortificazione, a dedicarsi al servizio dei poveri e dei lebbrosi, e a ricostruire alcune chiesette diroccate nei pressi della sua città natale. Adirato per la strana attività del figlio, il padre lo ripudiò e lo diseredò al cospetto del vescovo d’Assisi. Nel 1209, nella sua chiesetta prediletta di S. Maria degli Angeli o Porziuncola, udendo leggere il brano evangelico della missione degli Apostoli (Mt 10,7ss. “Strada facendo predicate che il regno di Dio è vicino. Guarite gli infermi, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni…Gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date. Non ricercate né argento e né oro…”), Francesco acquistò la certezza della sua vocazione: seguire Cristo in povertà apostolica e attività di predicazione ambulante. Compagni di vocazione si unirono a lui: essi erano vestiti come i poveri del luogo, di una tonaca con cappuccio, legata con un cordone in luogo della cintura. Francesco diede alla confraternita dei frati penitenti o minori (come egli stesso li chiamò) una breve regola, ricavata da parole evangeliche (che non ci è stata tramandata). Dietro sua preghiera, Papa Innocenzo III diede a questa regola un’approvazione orale e permise a Francesco e ai suoi compagni la semplice predicazione di penitenza e di buoni costumi. Presto il numero dei frati aumentò.

L’ordine femminile, cioè il secondo ordine, di severa clausura, fu fondato nel 1212 dalla nobile fanciulla Chiara d’Assisi nella chiesetta di s. Damiano.

Il terz’ordine, liberamente collegato al primo, è costituito da laici che si raccolgono in una pia associazione, ispirandosi all’ideale francescano della cristiana perfezione.

Nella sua terza e definitiva versione, la regola dei Frati Minori fu solennemente approvata nel 1223 da Onorio III. Così, quest’associazione di predicatori laici (lo stesso Francesco ottenne solo il diaconato e non ebbe la consacrazione sacerdotale) si era andata gradatamente trasformando in un ordine saldamente organizzato, che si pose poi su larga scala a servizio della Chiesa. In questo sviluppo esso seguiva più la pressione delle circostanze e i desideri della Curia, che non lo spirito del suo fondatore: Francesco si ritirò nel 1221 dalla direzione dell’ordine, che affidò a Frate Elia da Cortona, col titolo di vicario generale. Nei suoi ultimi anni di vita, Francesco ebbe grandi sofferenze fisiche e spirituali, finché il 4 settembre del 1224 ricevette nel suo corpo le stigmate di Cristo, durante una visione sul monte della Verna in Toscana (è il 1° fenomeno del genere di cui si è a conoscenza). Dopo aver portato a compimento il suo “Cantico di frate sole”, magnifica lode del Creatore nelle sue creature, egli morì la sera del 3 ottobre 1226 alla Porziuncola. Papa Gregorio IX lo proclamò santo già nel 1228.

L’ordine francescano si diffuse rapidamente in quasi tutta l’Europa, ma all’interno regnava un disaccordo penoso: il conflitto fra ideale e realtà portava a numerose controversie sulla questione della povertà. Frate Elia, dotato di spirito pratico ed esperto conoscitore del mondo, succeduto a Francesco come generale dell’ordine, introdusse diverse mitigazioni alla regola e fece accordare numerosi privilegi all’ordine. Gli si levò contro il partito più rigido, che si atteneva scrupolosamente alla lettera della regola e alla rigorosa osservanza del Testamento che Francesco aveva lasciato, in cui si accentuava ancor più l’obbligo della povertà più completa e si proibiva l’acquisto di qualsiasi privilegio. Nel corso delle controversie, Elia fu deposto. Solo più tardi, con s. Bonaventura, ci fu un’opera conciliante fra i partiti avversi, ma il disaccordo perdurò per diversi secoli.

Quasi contemporaneamente all’ordine francescano, sorse un altro grande ordine mendicante, quello dei Frati Predicatori o Domenicani: fondatore fu s. Domenico, nato nel 1170 in Pastiglia, canonico regolare nel monastero di Osma, che si dedicò a tale missione insieme al suo vescovo e fece fondare un centro missionario ai piedi dei Pirenei, oltre a una congregazione di pie donne che dovevano coadiuvare i missionari, accogliere le donne convertite ed educare i fanciulli. Nel 1215, Domenico fondò a Tolosa un’associazione di predicatori, per la diocesi del luogo, i quali dovevano dedicarsi alla cura d’anime e all’istruzione del popolo sulle verità di fede. Porre come scopo principale di un’associazione religiosa la diffusione della Parola di Dio era qualcosa di completamente nuovo. Papa Onorio III nel 1216 confermò quest’associazione di predicatori come ordine di chierici regolari con la regola agostiniana. Il primo capitolo generale del 1220 diede all’ordine la fisionomia di Ordine Mendicante, con la rinuncia ad ogni possesso e ad ogni introito stabile e regolare (secondo il modello dei Francescani). La regola dei Domenicani fu presa a modello per una serie di ordini religiosi posteriori. Domenico morì il 6 agosto 1221 a Bologna e fu canonizzato da Gregorio IX nel 1234.

Gli succedette come ministro generale il beato Giordano di Sassonia, sotto la cui guida i Domenicani si diffusero straordinariamente in molti paesi, esplicando una grande attività nella predicazione, nella cura d’anime, nelle missioni fra gli infedeli e nella lotta contro l’eresia (l’Inquisizione fu affidata prevalentemente ad essi).

Più tardi nacquero l’ordine femminile e il terz’ordine, che si sviluppò poi in un ordine claustrale di terziari regolari.

Le origini dell’Ordine Carmelitano risaliva ad epoca anteriore: la sua fondazione è dovuta al crociato Bertoldo di Calabria, che nel 1185 fissò il suo eremo insieme a 10 compagni presso la cosiddetta Grotta d’Elia sul monte Carmelo. Il patriarca Alberto di Gerusalemme diede alla compagnia una regola a carattere rigorosamente contemplativo e Papa Onorio III la approvò nel 1226. i Carmelitani costituirono un Ordine Mendicante solo quando, cacciati dall’Islam, dal 1238 trasmigrarono verso Cipro, la Sicilia, la Francia e l’Inghilterra, e alla vita eremita sostituirono una forma del tutto o in parte cenobitica. Più tardi si aggiunse l’ordine femminile delle Carmelitane.

L’uso dello scapolare, una sorta di cappuccio, non era prescritto all’inizio. La leggenda dice che il primo generale d’occidente, l’inglese Simon Stock l’avesse ricevuto dalla Madonna in una visione, come pegno di salute per tutti coloro che sarebbero morti indossandolo; a ciò si aggiunse poi la pretesa “Sabbatina”, cioè una bolla papale, nella quale si assicurava subito, o comunque il primo sabato dopo la morte, la liberazione dal purgatorio di tutti i fedeli iscritti all’ordine carmelitano o alle sue confraternite. Dal secolo XVI molti Papi confermarono genericamente il privilegio sabbatino, insieme alle indulgenze ad esso connesse, e permisero che si predicasse quella promessa come una pia credenza.

L’Ordine Mendicante degli Eremitani di s. Agostino trae origine dalle diverse congregazioni di eremiti con regola agostiniana, che erano sorte in Italia; le più importanti erano:

-         i Guglielmiti, fondata da s. Guglielmo di Maleval presso Siena;

-         i Giamboniti, fondata dal beato Giovanni Bono di Mantova.

Per evitare le controversie che, a causa della somiglianza dell’abito, nascevano fra Giamboniti e Francescani nella raccolta delle elemosine, in un primo tempo Innocenzo IV riunì gli eremiti esistenti in Toscana; poi Alessandro IV riunì anche tutti gli altri, in un’unica associazione, cioè nell’ordine degli Eremitani di s. Agostino, che non di rado sono chiamati anche semplicemente Agostiniani (da non confondere con i Canonici Regolari di s. Agostino).

L’ordine dei Mercenari o dei Nolaschi fu fondato, sulla base della regola degli Agostiniani, da s. Pietro Nolasco e da s. Raimondo di Penafort, terzo generale dell’ordine dei Domenicani, a Barcellona nel 1222, come pia associazione laica mirante alla liberazione degli schiavi cristiani dalla prigionia saracena. Solo nel 1233 si trasformò in un ordine religioso cavalleresco e, come tale, fu approvato dal papa Gregorio IX. In seguito ad una prescrizione secondo cui solo un sacerdote poteva diventarne generale, i cavalieri se ne staccarono e l’ordine assunse un carattere esclusivamente religioso, come Ordine Mendicante.

L’Ordine dei Serviti o Servi della Beata Vergine Maria ebbe origine nel 1233 a Firenze, dall’unione di 7 devoti commercianti, che appartenevano ad una confraternita in onore della Beata Vergine. La venerazione di Maria, e in particolare dei suoi dolori, costituì il centro del culto di quest’ordine, che nel 1240 prese la regola degli Agostiniani e nel 1255 fu approvato da Alessandro IV.

Vi si aggiunse poi una sezione femminile, le Serve di Maria, fondata dal 5° generale dell’ordine, s. Filippo Benizzi o Benizio.

Più tardi furono annesse le terziarie conventuali, dette Mantellate, dedite alla cura degli ammalati, la cui fondazione risale intorno al 1305 a s. Giuliana Falconieri, figlia di una nobile famiglia fiorentina.

 

 

ESTREMISTI ED ERETICI

 

Entro l’ordine francescano si sviluppò una preoccupante corrente di spiritualismo estremista, che acquistò larga diffusione e importanza anche nel mondo laico, e che si rifaceva al pensiero dell’abate cistercense Gioacchino da Fiore, uno stimatissimo asceta, devoto alla Chiesa e fondatore di una congregazione cistercense riformata, che però fu trascinato da una imprudente speculazione nell’errore del triteismo; conseguenze ancora più disastrose portarono le sue speculazioni circa il corso della storia del mondo e della Chiesa e le sue profezie di carattere apocalittico-riformatorio. Gioacchino non pose al centro della sua teologia della storia la cristologia, come si era fatto fino ad allora, ma la Trinità; alle 3 Persone in Dio fece corrispondere 3 diverse epoche della storia della salvezza:

-         età del Padre, dominata dalla legge e della carne, l’epoca degli sposati e dei laici;

-         età del Figlio, uno stadio intermedio fra la carne e lo spirito, l’epoca dei chierici;

-         età dello Spirito Santo, l’epoca dei monaci, nella quale, a partire dal 1260, una superiore interpretazione spirituale della Bibbia sarebbe stata predicata da un nuovo ordine monastico, e la corrotta Chiesa della carne avrebbe ceduto il posto alla perfetta Chiesa dello Spirito.

Una simile speculazione, date le angustie del tempo, riscosse vivo successo, specialmente nel rigoristico ambiente degli Spirituali, che rappresentavano una corrente più rigida nell’ordine francescano (anche il generale l’accolse con favore). Il francescano Gerardo da Borgo s. Donnino nel 1254 pubblicò uno scritto, nel quale esaltava s. Francesco come il nuovo legislatore e profeta inviato da Dio, e individuava nei francescani il nuovo ordine dell’ultima età, annunciato da Gioacchino. Gli si sollevò subito contro una vivace opposizione. Il suo scritto fu condannato e lui fu incarcerato a vita in un convento.

Ci furono anche certe manifestazioni di devozione eccentrica, come le processioni dei Flagellanti.

Il movimento spiritualista divenne una vera e propria setta. Rappresentarono tale movimento:

-         il teologo laico Arnaldo di Villanova, medico di fiducia di Bonifacio VIII;

-         il il francescano Pier di Giovanni Olivi, capo degli Spirituali nelle polemiche sulla povertà e oggetto di aspre contese (alcune sue proposizioni sul rapporto fra corpo e anima furono condannate);

-         il celebre poeta Jacopone da Todi, autore di aspre satire contro Bonifacio VIII e perciò scomunicato e imprigionato;

-         il duro asceta Ubertino da Casale.

Oltre alle pericolose eresie dei catari (albigesi) e dei valdesi, sorsero nuove eresie e sette che travagliarono la Chiesa:

1.      Amalrico di Bena, presso Chartres, rinomato maestro di teologia a Parigi, riallacciandosi a Giovanni Scoto, affermava l’identità del Creatore con la creazione e interpretava in senso panteistico la dottrina del Corpo Mistico di Cristo; i suoi seguaci, gli amalriciani, parlavano di una triplice incarnazione di Dio, come Padre in Abramo, come Figlio in Cristo e come Spirito Santo in ogni credente (negavano i sacramenti e le istituzioni ecclesiastiche, vedevano nel Papa l’Anticristo e pretendevano per sé una illimitata libertà morale);

2.      David di Dinant, maestro di filosofia a Parigi, si fece interprete anch’egli di teorie panteistiche su Dio, il mondo e l’anima (i suoi scritti furono condannati al fuoco);

3.      Ortlieb e gli ortliebari davano importanza a concezioni razionalistiche e ritenevano che il mondo fosse eterno e che Gesù fosse figlio di Maria e di Giuseppe (praticavano severe penitenze e condannavano il matrimonio);

4.      i luciferani, cioè seguaci e adoratori di Lucifero (satana), che si diceva compisse nelle loro riunioni cose abominevoli, derivavano dai catari, che credevano appunto in 2 principi primordiali del bene e del male;

5.      gli stedingi (=abitanti del litorale) rifiutavano di pagare il tributo al loro signore, il tirannico arcivescovo Gerardo II di Brema e combatterono contro l’esercito inviato contro di loro; furono considerati eretici e scomunicati, forse a torto, perché gli eccessi di cui venivano accusati (consultazione di spiriti maligni e di indovine, uso di idoli di cera, devastazione di chiese, profanazione dell’Eucaristia, ecc.) erano in parte resti di antiche superstizioni pagane e in parte effetto della reazione contro i loro oppressori;

6.      i fratelli del nuovo o libero Spirito, che non erano una setta chiusa e unitaria, ma si dividevano in molti gruppi indipendenti fra di loro; proclamavano la completa emancipazione dello spirito dalla carne e affermavano che chi è in unione con Dio non può più peccare, qualunque cosa faccia (la preghiera e i sacramenti sono inutili, e anzi dannosi);

7.      gli apostolici o fratelli apostoli, che derivano da Gerardo Segarelli di Parma, il quale, dopo essere stato espulso dai francescani, tentò di rinnovare per conto suo, con dei compagni, la vita apostolica di povertà e di predicazione (fu condannato dall’Inquisizione a carcere perpetuo e poi fu arso come eretico recidivo); il suo successore, fra Dolcino, si scagliò con maggior violenza contro la Chiesa, la insultò in pubblici manifesti come la meretrice babilonia dell’Apocalisse e le profetizzò vicino il momento in cui doveva essere giudicata (soggiacque a un esercito crociato inviato contro di lui e fu dato al rogo).

Il compito della repressione delle eresie si fece particolarmente urgente e la Chiesa fece largo uso dei mezzi di persuasione, come pure di ammonizioni e castighi.

Per il recupero dei valdesi, Innocenzo III riunì a Milano gli umiliati in un ordine religioso e fondò le compagnie dei Poveri cattolici e dei Lombardi riconciliati, che si sciolsero però ben presto (se ne assunsero poi i compiti i francescani e i domenicani). Nella Francia meridionale il Papa inviò dei cistercensi in qualità di legati, ma ebbero scarso risultato: la loro comparsa pomposa non era per nulla indicata a ridurre al silenzio i rimproveri che gli eretici muovevano contro la ricchezza della Chiesa e il lusso del clero. Quando un legato cistercense fu assassinato nella contea di Tolosa, il Papa indisse una crociata contro gli albigesi e raccolse un notevole esercito: ebbe così inizio la guerra albigese, che fu condotta però con crudeltà selvaggia e si protrasse molto a lungo, anche per i secondi fini di alcuni baroni; la pace di Parigi del 1229 ne segnò la fine, quando ormai quasi tutta la Francia meridionale era devastata e la potenza dell’eresia era infranta (solo piccoli focolai si mantennero in vita nell’ombra, malgrado la persecuzione dell’Inquisizione).

Con l’abbattimento degli albigesi è strettamente connesso il definitivo affermarsi della cosiddetta Inquisizione, cioè di quella particolare istituzione ecclesiastica che aveva per compito la ricerca e la punizione degli eretici. In alcuni paesi fu usata anche la pena di morte, eseguita di regola mediante il rogo, equiparando l’eresia alla magia e al maleficio. Alcuni sinodi inculcarono nei vescovi il dovere di procedere in tutte le parrocchie, mediante un sacerdote e alcuni laici fidati, alla denuncia degli eretici e alla loro punizione, per mano delle autorità civili. Federico II, di solito non molto scrupoloso in fatto di religione, mise la forza dello stato a servizio della Chiesa, per la repressione dell’eresia: in molti decreti stabilì per legge la pena del rogo come punizione adeguata per gli eretici.

Il sinodo di Tolosa del 1229, dopo la fine della guerra albigese, stabilì in maniera definitiva la procedura da seguire nella ricerca e nella punizione degli eretici:

-         gli eretici scoperti e convinti, e i loro fautori e protettori, dovevano essere colpiti dalla morte sul rogo;

-         chi offriva consapevolmente asilo a un eretico perdeva la sua proprietà e subiva un’adeguata pena corporale;

-         per evitare ingiustizie, il giudizio era riservato al vescovo o ad altra persona ecclesiastica a ciò autorizzata;

-         gli eretici pentiti avevano salva la vita, ma dovevano sottostare a dure opere di penitenza; essi erano poi esclusi dai pubblici uffici e dovevano portare sempre sull’abito 2 croci in segno di riconoscimento;

-         chi ritrattava solo a motivo della morte, o per motivi simili, doveva essere imprigionato, di regola a vita;

-         gli eretici recidivi venivano sempre arsi.

La forma del processo inquisitorio corrispondeva in genere a quella seguita nei processi per alto tradimento. Papa Gregorio, siccome i vescovi mostravano spesso una certa fiacchezza nel procedere, affidò l’Inquisizione quasi esclusivamente ai Domenicani, di cui essa divenne compito specifico. Questi inquisitori, che amministravano il loro ufficio come mandatari pontifici, non annullavano il tribunale dei vescovi, anche se lo mettevano assai nell’ombra.

Nel 1252 Papa Innocenzo IV mise a loro disposizione la tortura, prendendola dall’antico diritto romano: fu un passo deplorevole, se si pensa che un tempo Niccolò I l’aveva condannata come offesa contro ogni legge umana e divina.

L’istituto dell’Inquisizione rappresenta un forte addebito per la Chiesa del medioevo. Esso presentava fin dall’inizio gravi difetti, quali specialmente:

-         l’accettazione di denunce e la conservazione del segreto circa gli accusatori e testimoni a carico;

-         la non ammissione di un difensore;

-         l’eccessiva estensione del concetto di eresia;

-         l’applicazione della tortura;

-         la crudezza della pena di morte.

la circostanza che i condannati venissero consegnati, per l’esecuzione capitale, alle autorità civili non fa diminuire la responsabilità della Chiesa; tuttavia, occorre considerare anche la mentalità del tempo. Il medioevo, l’epoca dell’unità della fede, considerava la fede cristiana come il massimo bene e l’apostasia come il peggiore dei delitti. La chiesa e lo stato, quindi, si ritenevano fortemente autorizzati ed obbligati a procedere con tutti i mezzi della dura giustizia di quei tempi, tanto più che alcune sette mettevano in serio pericolo l’ordine statale e sociale.

 

STORIA DELLA CHIESA 4

 

ASSOLUTISMO

 

L’epoca moderna va dal trattato di Westfalia (1648) ad oggi.

Con la conversione al protestantesimo di alcuni stati, c’era la fine del predominio cattolico, anche in campo politico. Il Papa, però, rafforzava la sua centralità nella Chiesa: c’era bisogno di un punto di riferimento, per evitare la disgregazione della Chiesa.

In campo civile ci fu l’assolutizzazione della monarchia: si andava verso la Chiesa di stato, cioè lo stato cercava di controllare la Chiesa.

Il re era il rappresentante di Dio e non doveva rendere conto a nessuno del suo operato. Accentrava i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Le leggi erano fatte in nome del re. C’era confusione tra diritto pubblico e privato, come se lo stato fosse proprietà del sovrano: lo stato era del re.

Lo stato entrò nella Chiesa e cercò di dominarla; la proteggeva e interveniva contro le eresie e le trasgressioni, ma lo stato non appoggiava la fede della Chiesa. Si pensava che l’unità dello stato dipendesse dall’unità religiosa. Il re esercitava allora sulla Chiesa i vari diritti:

-         ius protectione (diritto di protezione);

-         ius reformandi (diritto di riforma);

-         ius nominandi (diritto di nominare i Vescovi, che non potevano schierarsi contro il re; era il modo dello stato di tenere in mano la Chiesa);

-         ius patronato (diritto di nominare moltre altre cariche, come parroci, dirigenti, ecc.);

-         ius ispectionis (diritto di ispezionare le chiese, controllare la liturgia e lo svolgimento dei voti);

-         ius exequatur (diritto di approvare preventivamente le circolari, le lettere pastorali, le bolle papali);

-         ius appello (diritto di appello per annullare le condanne del tribunale ecclesiastico).

Il re aveva anche il diritto di veto nella nomina del Papa.

Dominava quasi dappertutto il sistema della Chiesa di stato, a cui seguì il particolarismo religioso, ossia la tendenza a circoscrivere l’organizzazione ecclesiastica nell’ambito della regione o della nazione, svincolandola dal centro dell’unità ecclesiastica, cioè il Papato romano.

La situazione del Papato fu molto difficile per tutta la durata di questo periodo. I Papi di questo tempo furono tutti uomini eccellenti, ma per il disfavore dei tempi essi dovettero assistere a un notevole declino del prestigio politico e dell’autorità religiosa della Curia.

Le potenze cattoliche d’Europa avevano modo di esercitare una forte influenza anche sull’elezione papale e si sottrassero sempre più alla guida della Chiesa, facendo sentire ai Papi, spesso anche crudemente, la loro superiorità politica.

L’assolutismo statale si permise numerose interferenze nei diritti della Chiesa e la Curia le dovette subire quasi impotente; basti dire che non riuscì neppure ad impedire la soppressione della Compagnia di Gesù, voluta dall’impeto concorde delle corti borboniche.

Il regime assoluto dei sovrani raggiunse il suo vertice specialmente in Francia, la nazione-guida dell’Europa. Qui c’era il “re cristianissimo” Luigi XIV, un “nuovo Costantino”.

 

 

FRANCIA E LUIGI XIV

 

Sotto il lungo governo di Luigi XIV (1643-1715), il “re sole”, la Francia detenne saldamente in Europa l’egemonia politica e culturale. Egli non si limitò a perfezionare l’assolutismo statale, ma sviluppò in modo estremo l’illimitato potere regale anche nei confronti della Chiesa. Era inevitabile che ne nascessero gravi complicazioni.

Era Papa in questo periodo Innocenzo XI (1676-1689), poi beatificato; era uomo di elevatissima religiosità, dotato di alto senso di giustizia e di invincibile costanza. Dovette sostenere una dura lotta con Luigi XIV per il rinnovato avanzare dei Turchi, nelle cui mani era caduta Candia (Creta) nel 1669.

Il re di Francia intratteneva relazioni segrete con i Turchi, sollecitandoli alla guerra contro la Polonia e l’Austria.

Il Papa si dedicò con ogni impegno ad appoggiare l’Austria, gravemente minacciata; i Turchi, infatti, imponevano la loro cultura religiosa, e la Chiesa doveva difendersi.

Nonostante gli intrighi francesi, le truppe tedesche e polacche riuscirono a liberare Vienna assediata e il 12 settembre 1683 riportarono una splendida vittoria sui Turchi, sul Kahlenberg. Poco dopo fu riconquistata anche Buda (1686) e fu infranto il dominio turco in Ungheria.

Merito rilevante di questi grandi successi è da ascriversi al predicatore P. Marco d’Aviano, dell’ordine dei Cappuccini, che accompagnò l’esercito come legato apostolico.

Il Papa Innocenzo XI dovette scontrarsi con Luigi XIV anche per la questione delle regalie e quella della libertà di quartiere.

 

 

UGONOTTI

 

Gli ugonotti rappresentavano una debolezza dello stato, per cui Luigi XIV si rivolse dapprima contro di loro, perché per lui l’unità politica dipendeva da quella religiosa. Il clero francese appoggiò queste aspirazioni all’unità.

Non ci si limitò, tuttavia, all’impiego di mezzi pacifici per catechizzare e convincere i calvinisti: ben presto il governo usò anche misure coercitive.

Con l’editto di Nimes del 1629 erano state già tolte agli ugonotti le forze politiche. Nel 1685 il re decretò la revoca totale dell’editto di Nantes e pretese da tutti i francesi la professione della religione cattolica: i predicatori protestanti dovevano essere cacciati entro 14 giorni e il loro tempio doveva essere distrutto. I renitenti furono costretti alla sottomissione, mediante castighi e angherie, con l’uso forzoso delle truppe. Parecchi cattolici, e anche il papa Innocenzo XI, disapprovarono simili metodi di conversione.

Nonostante il severo divieto d’emigrazione e la sorveglianza dei confini, più di 200.000 ugonotti riuscirono a fuggire verso l’Olanda, la Svizzera, l’Inghilterra e la Germania. Le sollevazioni dei rimasti, come quella dei camisardi, furono soffocate nel sangue.

Il protestantesimo in Francia, però, continuò a mantenersi nel segreto e nei cuori, nonostante le persecuzioni.

 

 

GALLICANESIMO

 

Il gallicanesimo era un insieme di dottrine, princìpi e tendenze pratiche, che tendeva a limitare l’autorità del Papa. Non era un sistema unico, ma c’erano due tendenze:

-         gallicanesimo civile, che limitava l’autorità del Papa in campo civile;

-         gallicanesimo ecclesiastico, che limitava l’autorità del Papa in favore dei Vescovi.

Il gallicanesimo era una dottrina difesa anche nelle scuole, come la Sorbona di Parigi. C’erano alcuni autori preminenti: Pietro Pithou, nelle “Libertà gallicane”, difendeva l’indipendenza del sovrano e la dipendenza del Papa; Dronet difese l’autorità del Papa, ma il re intervenne e proibì che si parlasse in favore del Papa e contro di lui.

Un grave conflitto fu suscitato da Luigi XIV per la questione del diritto di regalìa, in vigore dal XII secolo in Francia (escluso il meridione), in forza del quale il re aveva diritto, durante la vacanza dei vescovati, a riscuotere gli introiti e a conferire i benefici di spettanza vescovile. Nel 1641, per ovviare ai continui malcontenti, Luigi XIII aveva rinunciato alle rendite dei vescovati vacanti, devolvendole ai vescovi futuri come dono del re. Ma il re affermò il proprio diritto alla regalìa spirituale, cioè il diritto di conferire le cariche ecclesiastiche che si facevano libere durante la vacanza dei vescovati. Luigi XIV estese questo diritto a tutto il regno, e con efficacia retroattiva. Il clero francese si piegò a questa legge; solo due, su tutti i 120 vescovi, la respinsero: Pavillon e Caulet. Per il loro rifiuto essi furono duramente perseguitati; furono deposti, ma il papa li ripristinò.

Siccome essi si erano appellati al papa Innocenzo XI, ci fu un’aspra controversia fra Roma e il governo francese. L’assemblea generale del clero francese si schierò apertamente dalla parte del sovrano, contro il Papa. Nel 1682 ci fu una dichiarazione di principio per precisare i limiti del potere papale, secondo lo spirito del gallicanesimo:

-         il Papa ha ricevuto da Dio solo un potere spirituale;

-         la pienezza dei poteri spetta al concilio ecumenico;

-         il potere papale è regolato dai canoni ecclesiastici;

-         le decisioni del Papa devono avere il consenso della chiesa universale.

I 4 articoli gallicani furono approvati dalla maggioranza del clero francese. Luigi XIV li fece registrare dappertutto come legge, rendendoli obbligatori.

Il Papa si indignò e, quando due dei partecipanti all’assemblea furono presentati dal re come futuri vescovi, egli rifiutò di ratificare la nomina.

Il re dichiarò che quest’atto rappresentava la rottura del concordato e vietò, ai candidati da lui nominati, di farsi dare la bolla di conferma da Roma.

Conseguenza fu che in 6 anni si ebbero in Francia ben 35 vescovati vacanti, oppure coperti da titolari privi della consacrazione vescovile.

A questa controversia se ne aggiunse un’altra, quella della libertà di quartiere delle ambasciate a Roma. Il Papa aveva sospeso il diritto d’asilo dai palazzi d’ambasciata ai quartieri circonvicini, perché c’era disordine nel servizio di polizia e nell’amministrazione della giustizia. Tutte le potenze vi si adattarono, esclusa la Francia.

Nel 1687 l’ambasciatore francese fu scomunicato e Luigi XIV si appellò ad un concilio ecumenico contro il Papa, occupando anche alcuni possedimenti papali (Avignone e Venassimo). Solo sotto il pontificato seguente il re cedette, restituendo quei territori a Papa Alessandro VIII e rinunciando alla libertà di quartiere del suo ambasciatore a Roma.

Il Papa Alessandro dichiarò nulli anche il diritto di regalìa e la dichiarazione del 1682, senza però gravare di una censura teologica i 4 articoli gallicani.

Nel 1691 il re promise a Innocenzo XII la sospensione dell’esecuzione della dichiarazione del 1682, ma gli articoli gallicani non furono revocati; permise, però, ai vescovi nominati di procurarsi la conferma papale. I vescovi partecipanti all’assemblea del 1682 ottennero la conferma solo dopo aver espresso uno per uno, in uno scritto al Papa, il loro pentimento per l’accaduto. Tuttavia la dottrina gallicana, appoggiata dal parlamento, si conservò in Francia fino al XIX secolo inoltrato.

 

GIANSENISMO

 

Il giansenismo fu la continuazione delle controversie del XIV secolo sulla grazia.

C’era già stata la controversia pelagiana.

Col concilio di Orange del 529 si parlava della necessità della grazia, distinta in santificante, preveniente e perseverante.

Baio, al tempo del concilio di Trento, affermava la tendenza dell’uomo al male: la libertà non è interna, ma dipende dalla grazia; si fa il bene se prevale la grazia, si fa il male se prevale la tendenza al male. Ma così non c’è responsabilità.

Lutero diceva che la natura umana è corrotta e ci si salva solo con la fede in Gesù: la natura rimane corrotta, ma viene coperta.

Molina faceva dipendere la salvezza dalla prescienza di Dio.

Il Papa Clemente VIII nel 1594 aveva nominato un’assemblea cardinalizia di esperti, sciolta poi nel 1607. Rimanevano i principi generali: l’uomo è libero di fare il bene o il male; per fare il bene occorre la grazia.

Giansenio, professore di teologia e vescovo di Ipres, riprese il problema della grazia. All’università di Sorbona aveva conosciuto l’abate Saint-Cyran e avevano deciso una riforma: Giansenio nella vita spirituale e Saint-Cyran nella vita religiosa.

Alla sua morte, nel 1638, Giansenio lasciò una sua opera su s. Agostino, contenente le idee di Baio già condannate da Roma. Si cercava di rimanere uniti alla Chiesa, ma si cercavano tutte le scappatoie. L’opera fu proibita con la bolla papale di Urbano VIII. Gli amici del libro videro nella censura un colpo contro la dottrina stessa di s. Agostino e vollero difendere Giansenio.

La badessa Angelica Arnauld e il suo monastero cistercense, di cui Saint-Cyran era il confessore, insieme al fratello Antonio Arnauld, sacerdote e teologo, difesero le idee gianseniste.

Principali avversari furono i Gesuiti, accusati a loro volta dai giansenisti di semipelagianesimo nella dottrina della grazia e di lassismo nella morale.

Antonio Arnauld, ormai capo spirituale del giansenismo, prese a combattere la frequenza ai santi sacramenti, raccomandata e propagata dai Gesuiti; partendo da una concezione rigorista della grazia e della penitenza, egli poneva delle condizioni molto severe per poter ricevere l’assoluzione e la comunione. Le sue idee incontrarono un largo favore e 88 vescovi, in parte esortati da s. Vincenzo de Paoli,, sollecitarono l’intervento della S. Sede.

Nel 1653 il Papa Innocenzo X condannò come eretiche le 5 proposizioni dell’opera su s. Agostino; esse affermavano:

-         alcuni comandamento di Dio senza la grazia non possono essere osservati neppure dai giusti;

-         alla grazia interiore l’uomo non può resistere;

-         merito e demerito presuppongono solo la libertà fisica, non interna;

-         i pelagiani errarono dicendo che la volontà umana può resistere alla grazia;

-         è un errore semipelagiano dire che Cristo è morto per tutti gli uomini.

I giansenisti rispettarono la bolla papale, ma negarono che le proposizioni riflettessero la vera dottrina di Giansenio.

La Chiesa, non potendo esigere un consenso interno, richiese un silenzio ossequioso.

Dopo violente diatribe, Arnauld e altri dottori che non si volevano assoggettare, nel 1656 furono espulsi dalla Sorbona.

Anche Blaise Pascal, il geniale matematico e filosofo, si schierò dalla parte dei giansenisti e mosse un duro attacco contro la morale dei Gesuiti, con uno scritto satirico che li discreditò davanti all’opinione pubblica della Francia e di tutta l’Europa.

Il Papa Alessandro VII rigettò la scappatoia dei giansenisti e dichiarò che le 5 proposizioni erano state prese proprio dal libro di Giansenio e condannate nel senso espresso dall’autore; tuttavia, molti non di ricredettero e si rifiutarono di sottoscrivere la sottomissione richiesta, sebbene il re Luigi XIV, che per motivi politici avversava il giansenismo, avesse minacciato la privazione dei benefici ecclesiastici a quanti rifiutavano la sottoscrizione.

Le monache gianseniste furono colpite dalla censura e interdette.

Ma la lotta divampò di nuovo quando, nel 1701, fu sollevato il cosiddetto caso di coscienza: 40 dottori della Sorbona dichiararono l’adesione al silenzio ossequioso non era un impedimento all’assoluzione in confessione. Molti vescovi francesi e il Papa Clemente XI respinsero questa dichiarazione e fu emanata una bolla, in cui, dichiarando insufficiente il silenzio ossequioso, si diceva che la condanna delle proposizioni di Giansenio era necessaria che fosse fatta “con la bocca e col cuore”.

Nel 1705 l’assemblea del clero, di sentimenti gallicani, dichiarò di accettarla, ma espresse anche la convinzione che i decreti dei Papi sono obbligatori solo se riconosciuti ed accettati dai Vescovi.

Le monache gianseniste volevano accettare la bolla, ma solo con una clausola; alla fine il monastero fu soppresso dal governo, col consenso del Papa.

Nel frattempo, il giansenista Quesnel, rifugiato in Belgio dal 1684, pubblicò delle “Riflessioni morali” sui Vangeli, in un libro impregnato di idee gianseniste. Il Papa Clemente XI lo colpì con la censura. La’arcivescovo di Parigi Noailles non voleva revocare la sua approvazione e allora Luigi XIV sottopose il libro all’esame di Roma; ne seguì una bolla papale che condannava 101 proposizioni di Quesnel.

Mentre negli altri stati la bolla fu accettata, in Francia ricominciarono i problemi. Alcune proposizioni, prese singolarmente, sembravano avere un senso ortodosso, per cui Noailles rifiutò il suo assenso alla bolla, seguito da altri prelati.

Dopo la morte di Luigi XIV, con il duca Filippo di Orléans, poco amico della Chiesa, l’ooposizione acquistò maggior terreno. Contro la bolla, 4 vescovi si appellarono a un concilio ecumenico; ad essi si unirono Noailles, alcune università e centinaia di sacerdoti e di religiosi e molti laici: la Francia si divise in accettanti e appellanti. Gli appellanti furono scomunicati, ma essi dichiararono che la scomunica era invalida.

Nel 1720 il governo fece registrare la bolla come legge di stato; dopo molte scappatoie, anche il cardinale Noailles dichiarò la sua sottomissione incondizionata. Molti appellanti seguirono il suo esempio. Alcuni che erano rimasti sostenitori si fecero argomento di estasi, visioni e miracoli che avvenivano sulla tomba di un diacono giansenista e in case private, ma questo epilogo di fanatismo non riuscì ad impedire il tramonto del giansenismo.

Nel 1756 il Papa Benedetto XIV affermò che solo ai dispregiatori pubblici e notori bisognava rifiutare gli ultimi sacramenti.

 

QUIETISMO

 

Al contrario del giansenismo (esagerazione nella morale), si sviluppò in Spagna il quietismo (falsa mistica; abbandonarsi a Dio senza fare nulla). Il principale esponente fu il sacerdote Michele Molinos; mandato a Roma per la causa di beatificazione di un santo spagnolo, fu apprezzato come confessore e direttore spirituale. Nel suo diffuso libro “guida spirituale” del 1675, egli esprimeva l’idea che il fine della vita spirituale e la perfetta passività dell’anima davanti a Dio, in modo da escludere anche il desiderio di beatitudine e di perfezione. Egli affermava che, giunta in un tale stato di annichilimento, l’anima non può peccare, anche se esternamente sembri violare i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa, perché non c’è volontà. L’anima non desidera più nulla, né salvezza e né dannazione; preghiere, penitenza e lotta contro le tentazioni non servono più ad essa.

Molinos acquistò numerosi seguaci, ma sorsero contro di lui dei sospetti; nel 1685 fu imprigionato e l’istruttoria dell’Inquisizione portò alla luce del materiale molto compromettente circa la sua vita morale. Fu condannato a reclusione claustrale per tutta la vita, ma rimase l’incertezza sulla sua reale condotta, perché accettò tutte le accuse senza reagire. Fu passivo in tutto.

In Francia il quietismo fu sostenuto e propagato specialmente dalla vedova Motte-Guyon e dal suo direttore spirituale Lacombe. La donna non aveva uno spirito completamente equilibrato. Fra i due c’era un rapporto misterioso. Anch’essi insegnavano la passività di fronte a Dio; arrivarono a dire che il peccato può essere un modo di umiliarsi davanti a Dio. I loro scritti furono censurati.

Lacombe nel 1687 fu imprigionato fino alla morte, mentre madame Guyon fu ripetutamente sottoposta a reclusione.

Una commissione di teologi, riunitasi vicino Parigi, sotto la presidenza del vescovo Bossuet, precisò la dottrina cattolica sulla mistica in 30 articoli.

Ci fu uno scontro tra i due più eminenti vescovi della Francia: Bossuet combatté energicamente il quietismo, mentre Fénelon credette di dover difendere la “profetessa” da lui venerata e la sua dottrina dell’amore di Dio puro e disinteressato. Bossuet insorse contro di lui con asprezza offensiva e anche luigi XIV intervenne contro Fénelon.

Dopo un lungo esame, il Papa Innocenzo XII, pressato dal re, condannò nel 1699 23 proposizioni del libro di Fénelon come “scandalose e temerarie”.

Fénelon si sottomise senza indugio e la controversia fu terminata.

 

PIETISMO

 

Le Chiese protestanti, in modo particolare quella luterana, a un secolo appena dalla loro fondazione minacciavano di inaridirsi; uomini di provata serietà compresero allora la necessità di vivificare il protestantesimo con una maggiore esperienza personale di fede, con una più intensa interiorità e vita cristiana attiva e sentita.  La predicazione doveva basarsi sulla Parola di Dio; non bastava conoscere, ma occorreva operare. Non si doveva mettere troppo l’accento sulle eresie, ma occorreva preparare spiritualmente i pastori. Tale compito si assunse in particolare il pietismo.

Suo vero fondatore fu Spener, parroco a Francoforte e curatore d’anime, eccellente catechista e predicatore.

Dal 1670 cominciò a tenere delle conferenze ad argomento biblico e i partecipanti a queste riunioni furono chiamati per derisione “pietisti”.

Nel 1675 pubblicò uno scritto in cui esponeva un programma di riforma degli studi teologici, della predicazione, della catechesi e dell’intera vita ecclesiastica, sulla base della Sacra Scrittura.

Nel 1690 le sue riunioni furono proibite e Spener fu chiamato in una università a Berlino. Il movimento si diffuse, tanto da non poter essere soppresso, nonostante i violenti assalti da parte dell’ortodossia.

Non si può negare che il pietismo abbia promosso efficacemente una vita religiosa e l’attività caritativa; però, si congiunse spesso una mentalità ristretta e rigorista, che portò anche al radicalismo, al fanatismo e a un settarismo ripugnante.

Si svilupparono, intanto, altri movimenti di risveglio:

- la setta dei quaccheri fu fondata dal calzolaio Fox che, convinto di avere una illuminazione speciale, dal 1648 si mise a percorrere l’Inghilterra in veste di profeta e predicatore ambulante, radunando molti seguaci; prendendo spunto dalle convulsioni che si manifestavano nelle loro esaltazioni estatiche, furono chiamati per derisione “quaccheri” (da quake= tremare, venire scossi). Essi non hanno veri dogmi o sacramenti; l’elemento decisivo è la luce interiore, cioè l’illuminazione immediata per opera di Cristo, che determina la fede, la predicazione e il culto del divino. Non sono ammesse chiese stabili, essendo ormai iniziata l’epoca escatologica; è importante la devozione pratica e si esige severa veracità e tenore di vita semplice. Sono una specie di pentecostali. I quaccheri furono all’inizio duramente perseguitati; Fox fu messo in carcere ben 8 volte. L’atto di tolleranza di Guglielmo III nel 1689 fece cessare anche per essi le persecuzioni. Oggi sono molto attivi in campo sociale caritativo e si segnalano per sobrietà ed onestà;

- il gruppo pietista della confraternita di Hernhut, fondato dal conte Zinzendorf, che fin da giovane era pieno d’ammirazione per la religione e la chiesa del cuore caldeggiate da Spener. Nel 1722 egli concesse a fratelli boemi e moravi, oppressi dalla controriforma, di stanziarsi nella sua tenuta presso il monte Hut, che divenne il luogo di rifugio dei pietisti e dei separatisti delle regioni più diverse. Questi elementi disparati si fusero nel 1727 in una nuova fraternità, senza provocare una vera e propria rottura con la chiesa territoriale luterana. Nel 1748, dopo lunga opposizione, si arrivò al riconoscimento statale.

 

METODISMO

 

Movimento affine al pietismo fu il metodismo, diffuso in Inghilterra in opposizione alla Chiesa anglicana, religiosamente e moralmente rilassata. La cellula germinale fu un’associazione di studenti, fondata da Charles Wesley a Oxford nel 1729, con lo scopo di coltivare particolarmente la virtù e la devozione; aderirono anche il sacerdote anglicano John Wesley (suo fratello) e il geniale oratore Gorge Whitefield.

Per il loro tenore di vita regolato metodicamente, i membri dell’associazione furono chiamati metodisti. In seguito a contatti con la confraternita di Hernhut, i fratelli Wesley decisero di dedicarsi alla predicazione del risveglio.

La chiesa di stato precluse loro i pulpiti ed essi si diedero a predicare a cielo aperto, spesso davanti a migliaia di persone.

I sacerdoti anglicani cominciarono a rifiutare loro la comunione ed essi eressero delle apposite cappelle per le “società dei risvegliati”.

Si giunse alla separazione dalla chiesa di stato; anima ed organizzatore del movimento fi John Wesley, che prese come collaboratori dei laici, che mandò a predicare e a cui dopo conferì l’ordinazione lui stesso.

Nel 1740 si staccò dalla confraternita di Hernhut, perché egli concepiva la conversione come un distacco immediato e improvviso dal peccato, che si verifica in un determinato momento percepito dall’esperienza.

Nel 1741 si staccò anche da Whitefield, perché Wesley rigettava il severo predestinazionismo calvinista che Whitefield, invece, professava.

Per il resto, i metodisti conservarono sostanzialmente la dottrina dogmatica anglicana. Ebbero larga diffusione in Gran Bretagna e in America, ma anche negli altri paesi europei.

Oggi svolgono una intensa attività nel campo sociale caritativo e in quello delle missioni.

 

 

LA LOTTA CONTRO LA COMPAGNIA DI GESU’

 

Per ben due secoli l’ordine dei Gesuiti aveva superato, per importanza ed influenza, tutti gli altri ordini religiosi, in ogni settore della usa attività: cura d’anime, missioni, insegnamento e studi teologici. Ma in alcuni membri s’era maturato un certo orgoglio e un eccessivo desiderio d’imporsi, tali da compromettere talora persino lo stretto dovere d’ubbidienza alla S. Sede. Ciò procurò all’ordine molti oppositori e rivali, specie fra i seguaci dello spirito anticlericale del tempo, che in esso ravvisavano e osteggiavano l’avanguardia più avanzata della Chiesa cattolica. Ci furono anche spiacevoli attriti fra i Gesuiti e gli ordini più antichi.

Nella seconda metà del Settecento ci fu una vera e propria campagna distruttrice, che procurò all’ordine una fine repentina e immeritata.

La prima tempesta si scatenò nel Portogallo, dove a reggere le redini del governo, sotto il debole re Giuseppe I Emanuele, c’era il ministro Pombal, che osteggiava la nobiltà e il clero come avversari dell’assolutismo. A suo avviso, i Gesuiti erano responsabili di ogni sciagura che aveva colpito il Portogallo negli ultimi tempi.

L’occasione per procedere contro di loro arrivò con i fatti accaduti in Sud America. In seguito ad una rettifica dei confini fra la Spagna e il Portogallo, nel 1750 30.000 Indiani cristiani del Paraguay erano stati costretti ad emigrare con la forza. Avendo impugnate le armi per difendersi, ci fu la cosiddetta guerra delle riduzioni (1756) ed essi furono vinti e costretti a sottomettersi.

Pombal attribuì la responsabilità dell’opposizione ai Gesuiti, come capi degli indigeni, ed eccitò contro di loro l’opinione pubblica.

Incolpati di essere contro il Papa, Benedetto XIV nominò il cardinale Saldanha, parente di Pombal, come visitatore della Compagnia di Gesù in Portogallo; egli si servì del cardinale di Lisbona per far sospendere nel 1758 i Gesuiti dall’esercizio della predicazione e della confessione, per “affari commerciali illeciti”.

Nel 1759 il re fu ferito in un attentato e Pombal colse l’occasione per reprimere brutalmente l’ordine in tutto il Portogallo e sue colonie, accusandolo d’aver preso parte alla congiura. I beni dell’ordine furono sequestrati, molti Gesuiti imprigionati per anni, centinaia di essi fatti sbarcare senza mezzi presso lo Stato Pontificio; nel 1761 il vecchio padre Malagrida fu perfino giustiziato per alto tradimento ed eresia.

Ben presto ci fu un’altra tempesta anche in Francia, dove i giansenisti osteggiavano i Gesuiti senza posa, mentre i liberi pensatori e i massoni ne sollecitavano la caduta. Offrì motivo di eccitazione all’opinione pubblica l’affare di padre Lavalette, procuratore generale della Compagnia di Gesù nell’isola di Martinica.

Egli si trovò coinvolto in disgraziate imprese commerciali; l’ordine si rifiutò di pagare per lui un debito di 1,5 milioni di livres, ma nel 1761 un giudizio definitivo del parlamento di Parigi lo onerò di tale responsabilità. Seguì un’ondata di attacchi velenosi. A nulla valse che la maggioranza dei vescovi francesi prendesse sotto la sua protezione i Gesuiti.

Il re stesso, Luigi XV, cercò di salvare la provincia francese dell’ordine; propose di dotarla di una certa autonomia, con la nomina di un vicario generale. Il generale dell’ordine Ricci e il Papa Clemente XIII non accettarono.

Nel 1762 il parlamento decretò lo scioglimento della Compagnia di Gesù in Francia; nel 1764 anche il debole sovrano aderì alla sentenza. I beni dell’ordine furono sequestrati, ma ai padri fu consentito di continuare a svolgere la loro attività come sacerdoti secolari, sotto la giurisdizione dei vescovi.

L’ordine perse due rami importantissimi, ma il Papa prese molto a cuore la questione e ne riconfermò l’approvazione, rivelando i meriti della Compagnia e respingendo le accuse. Tuttavia, altri stati cercarono di cacciare i Gesuiti.

Così fece in Spagna Carlo III nel 1767.

Così fece anche nel regno di Napoli e Sicilia il giovane Ferdinando IV, figlio di Carlo.

Migliaia di Gesuiti furono deportati nello Stato Pontificio.

Nel 1768 il Papa emanò un monito contro il duca Ferdinando di Parma, nipote di Carlo, per infrazione dei diritti ecclesiastici; anche questi bandì l’ordine dei Gesuiti.

Tutte le potenze borboniche procedettero contro il Papa e reclamarono, con minacce, l’immediata revoca del monito e la soppressione della Compagnia di Gesù in tutta la Chiesa.

Nel 1769 Clemente III morì e, dopo 3 mesi di conclave, fu eletto Clemente IV, uomo pio e dotto, appartenente all’ordine dei Conventuali francescani. Egli cercò di evitare la soppressione dell’ordine, ma, davanti al pericolo di uno scisma, finì per cedere.

In forza della sua autorità apostolica, nel 1773 ordinò la soppressione dell’ordine dei Gesuiti, non essendo più in grado, in quella situazione, di produrre i ricchi frutti e i vantaggi per cui era stato fondato, divenendo anzi causa di durevole discordia fra gli stati e i popoli. I membri della Compagnia ribevettero il permesso di entrare in un altro ordine, oppure di restare nelle loro case senza esercitare sacre funzioni, oppure di prestare la loro opera mettendosi a disposizione dei vescovi.

Tale soppressione fu un grave colpo per la Chiesa, specialmente nel settore dell’insegnamento e delle missioni.

Il generale dell’ordine, Ricci, e i suoi assistenti furono sottoposti ad inchiesta; sebbene non fosse emerso nulla a loro carico, Ricci rimase, fino alla sua morte, chiuso in Castel S. Angelo, protestando anche sul letto di morte l’innocenza sua e dell’ordine.

Nella Polonia russa, per ordine dell’imperatrice Caterina II di Russia, il decreto papale non fu pubblicato e l’ordine vi continuò ad esistere.

Lo stesso avvenne nella Slesia, soggetta alla Prussica, per volontà di Federico II, almeno fino al 1776.

Questi due monarchi non volevano rinunciare, nei loro paesi, all’opera di valenti insegnanti come i Gesuiti.

 

EPISCOPALISMO

 

Le idee gallicane passarono dalla Francia alla Germania cattolica, mediante gli scritti del professore di diritto canonico Espen, riuscendo ad acquistare una forte influenza, sebbene queste opere fosse state messe all’Indice.

Qui non c’era il re, ma furono i vescovi a prendere l’iniziativa, dando vita all’episcopalismo, cioè la tendenza a ridurre sostanzialmente i diritti del Papa a favore dei diritti vescovili.

In Germania c’era un notevole malcontento contro la Curia fin dai tempi del Concordato di Vienna del 1448, perché era gravata da una forte tassazione; inoltre, i nunzi papali si prendevano più poteri di quanto fosse loro dovuto.

L’insoddisfazione dei vescovi si espresse innanzitutto in uno scritto del 1673, dichiarando che la chiesa germanica era trattata peggio di quella francese e di quella spagnola.

Il vescovo Hontheim, discepolo di Espen, con lo pseudonimo di Febronii, scrisse anche un libro, in cui affermava che per recuperare i cristiani divisi nella fede occorreva ricondurre la Chiesa alla sua costituzione originaria dell’antichità cristiana; ai vescovi e ai concili dovevano essere restituiti i diritti di cui erano stati privati, precisando i limiti del primato romano. Si diceva anche che il Papa non è infallibile e non possiede un potere monarchico illimitato sulla Chiesa, perché tale potere appartiene alla totalità dei vescovi o al concilio; le decisioni e le leggi disciplinari emanate dal Papa sono obbliganti solo per l’approvazione della Chiesa universale e il successore di Pietro ha solo una preminenza onorifica rispetto ai vescovi.

Quest’opera suscitò grande interesse, ma Clemente XIII nel 1764 la mise all’Indice e sollecitò i vescovi tedeschi a procedere energicamente.

Alcuni arcivescovi fecero redigere da alcuni loro delegati, riuniti a Coblenza nel 1769, sotto la presidenza di Hontheim, un memorandum di 31 articoli secondo lo spirito febroniano.

Hontheim, che dapprima aveva negato di essere l’autore del libro, ne rifiutò la richiesta ritrattazione; la inviò a Roma solo nel 1778, sotto la pressione del suo arcivescovo.

Tuttavia, le sue idee rimasero in sostanza invariate.

 

 

CESAROPAPISMO

 

In Austria l’imperatrice Maria Teresa, profondamente cattolica, decise di condurre una serie di riforme per migliorare la depressa amministrazione della monarchia e per elevare le condizioni della cura delle anime; tuttavia, queste riforme contenevano delle concessioni allo spirito illuministico del tempo.

In generale, però, Maria Teresa cercò di procurarsi il più possibile l’approvazione della Sede apostolica.

Nel 1780 divenne successore il figlio Giuseppe II, che aspirava a dare all’Austria un ordinamento rigidamente centralizzato; egli era imbevuto delle teorie illuministiche e del diritto naturale e statale, che estendevano illimitatamente il potere dello stato, subordinando ad esso anche la Chiesa.

L’imperatore ordinò la soppressione di circa 600 monasteri e il ricavato finì nel “fondo di religione”, che fu devoluto per scopi ecclesiastici e caritativi; furono sciolte anche le numerose confraternite, sostituendovi un’unica “confraternita dell’azione caritativa”. A molte diocesi furono modificati i confini e i seminari diocesani furono sostituiti da “seminari generali”.

Gran parte dell’episcopato e del clero austriaco si piegò alla volontà di riforma dell’imperatore.

Nel 1782 il Papa Pio VI andò a Vienna di persona, per porre freno a questa frenesia di riforme, ma fu senza esito, a motivo dell’espediente di mettere tutto per iscritto.

Senza risultato rimase anche la visita a Roma che Giuseppe II contraccambiò nel 1783. Ma alla fine della sua vita dovette ammettere con dolore il fallimento dei suoi progetti di riforma.

Il successore e fratello, Leopoldo II, fu costretto a ritirare tutte le riforme per il Belgio.

Prima di diventare imperatore, anch’egli, che era granduca di Toscana, si era abbandonato ad un eccessivo zelo di riforma. Certo c’era bisogno di rinnovamento, ma la via intrapresa, di emanare provvedimenti arbitrari senza prendere contatto con Roma, aveva generato molto turbamento.

Se all’inizio egli osservò una certa misura, poi si spostò sempre più verso il settore puramente ecclesiastico; nel 1786, in un regolamento per il clero toscano, pubblicò una raccolta delle sue riforme.

Solo pochi vescovi vi aderirono, fra cui il giansenista e gallicano Scipione de’ Ricci, nipote del generale Ricci dei Gesuiti. Sotto la sua guida, il sinodo diocesano di Pistoia emanò una serie di decreti di riforma: erano accolti anche i 4 articoli gallicani e raccomandate le meditazioni di Quesnel sulla Sacra Scrittura.

Nel 1787 il sinodo generale di Firenze respinse tali riforme e Leopoldo II continuò a riformare di propria autorità.

La sua elezione al trono imperiale, nel 1790, portò in Toscana un mutamento della situazione; quando egli lasciò il paese, Ricci dovette fuggire e poi dimettersi. Le riforme furono in gran parte ritirate.

Anche nel resto dell’Italia ci furono gravi difficoltà per la Chiesa del secolo.

La Lombardia, soggetta all’Austria, vide una serie di trasformazioni politiche, sociali ed economiche che toccavano anche l’organizzazione ecclesiastica.

Gravi difficoltà ci furono anche a Venezia, dove si giunse alla soppressione di molti conventi, e nel Piemonte, diventato sovrano della Sardegna senza riguardo alla supremazia feudale affermata sull’isola dalla S. Sede.

Maggiori oppressioni ci furono nel regno di Napoli per opera di giuristi e uomini politici, che riassorbirono l’autonomia ecclesiastica nei quadri dello stato.

 

 

RIVOLUZIONE FRANCESE

 

La rivoluzione francese ebbe la sua causa immediata nella deficienza finanziaria dello stato.

La situazione era che tra stato e Chiesa c’era uno stretto legame: il re aveva un’autorità giustificata anche dalla Chiesa e l’investitura avveniva con una celebrazione religiosa; il re nominava i Vescovi, che erano per lo più nobili.

Il reddito della Chiesa era di 250 milioni l’anno; la Chiesa possedeva 1/5 dei beni terrieri e aveva beni per un valore di 3 miliardi. Aveva entrate per le decime per L. 417.000, ma manteneva collegi e seminari. C’era distinzione tra alto e basso clero. Nella Curia romana spesso si eccedeva nel nepotismo.

In Francia c’erano cardinali molto ricchi; avevano una rendita di L. 800.000 (uno stipendio buono era di L. 700). Tra di essi c’era il Vescovo di Talleyrand.

C’erano tanti preti canonici; altri preti erano istituiti. In alcune diocesi il clero sfuggiva al controllo del Vescovo.

Nelle parrocchie si distinguevano:

-         il parroco primitivo, che era nobile e non stava in parrocchia, ma riceveva comunque uno stipendio;

-         il parroco che sostituiva il primitivo, svolgeva tutti i servizi ed era mal pagato.

Lo stipendio era di L. 700 l’anno (alto clero), ma molti ricevevano solo L. 300 l’anno (basso clero).

Per quanto riguarda la condizione del popolo, c’era una decadenza morale; c’era molta violenza. A Roma, in 4 anni, c’erano stati 4.000 omicidi. In tutto lo Stato Pontificio c’erano stati altri 6.000 omicidi.

C’era immoralità anche nella stampa e nella pittura.

Alcuni professori elogiavano la poligamia, altri la fornicazione.

La decadenza riguardava anche il clero.

In Francia c’era il dissesto economico.

Aumentava l’attività agitatoria dei liberi pensatori e dei massoni. Aumentavano anche la frivolezza e la scostumatezza dei ceti più alti.

Lo stato viveva una grande deficienza finanziaria e il popolo iniziava a ribellarsi, manifestando una eccitazione incontenibile. Era già nell’aria la rivoluzione, ma nessuno la voleva; si auspicava, invece, una soluzione pacifica. C’era la crisi economica: la nazione era ricca, ma lo stato indebitato. Il re Luigi XVI era un debole e faceva troppe spese.

Furono chiamati due ministri:

- Turgot, per primo, propose delle riforme, ma non furono accettate;

- Necker, suo successore, ricorse a prestiti e si distinse per opere filantropiche, ma dovette dimettersi anche lui (era, tra l’altro, un protestante).

C’erano tre classi: clero, nobiltà e terzo stato. Era il tempo delle guerre di indipendenza, con tutte le affermazioni dei principi di libertà ed uguaglianza.

Luigi XVI convocò nel 1789 gli stati generali (clero, nobiltà e borghesia) a Versaglia.

Il terzo stato aveva avuto il doppio dei rappresentanti (253 clero, circa 300 nobiltà e 578 terzo stato): era la maggioranza della popolazione.

Prima di iniziare l’assemblea, si celebrò una Messa allo Spirito Santo, anche se non tutti erano cattolici.

Il primo problema era come votare:

-         procapite (in questo caso il terzo stato era la maggioranza);

-         per stato (in questo caso clero e nobiltà si univano); ma una parte del clero (circa 160) si unì al terzo stato e si ebbe così la maggioranza.

Il terzo stato si impadronì della direzione; si creò l’assemblea costituente, per dare al paese una nuova costituzione.

Iniziarono i lavori, ma c’erano delle agitazioni di piazza; si formarono dei club o circoli: giacobini, girondini, cordiglieri (uomini da conventi).

Ci fu l’assalto alla Bastiglia per liberare dei politici, ma c’erano solo 7 detenuti (2 pazzi, 2 falsari e altre 3 persone). Fu un assalto formale.

Con la soppressione di tutti i privilegi di classe, fu proclamata l’illimitata libertà di coscienza e di culto.

Su proposta del Vescovo di Talleyrand, l’intero patrimonio ecclesiastico fu messo a disposizione della nazione, con l’onere, tuttavia, di sostenere le spese di culto, di mantenere i ministri della Chiesa e di assistere i poveri.

Nel 1790, l’assemblea costituente soppresse gli ordini e le congregazioni religiose, eccetto quelli che servivano all’assistenza degli infermi e all’educazione.

C’era una forte tendenza antiecclesiastica, e lo dimostra la costituzione civile del clero che fu emanata ispirandosi alle vecchie idee gallicane.

Le cariche ecclesiastiche furono elette sempre più come le cariche civili; la Chiesa passò completamente in mano allo stato.

Si aspirava a distruggere l’ordinamento gerarchico, trasformando la chiesa francese in una chiesa nazionale, troncando quasi completamente il collegamento con Roma.

I sacerdoti furono obbligati a prestare il giuramento costituzionale e anche il re ratificò il nuovo ordinamento, ritenendosi scusato dalla necessità della situazione.

Ci fu una divisione tremenda:

-         la chiesa dei sacerdoti giurati (circa 25.000-30.000 ecclesiastici; 1/3 del clero francese);

-         la chiesa dei sacerdoti non giurati (circa 60.000-70.000 ecclesiastici).

Il Papa Pio VI rigettò la costituzione civile, come fondata su principi eretici, e dichiarò sospesi i sacerdoti giurati, se non ritrattavano entro 40 giorni (molti lo fecero). Pagò, però, questo provvedimento con la perdita delle contee francesi di Avignone e venassimo, che lo Stato Pontificio non recuperò più.

Nel 1791 all’assemblea costituente subentrò l’assemblea legislativa, che tentò di infrangere con la violenza l’opposizione del clero. I sacerdoti che rifiutarono il giuramento furono perseguitati, gettati in carcere e condannati alla deportazione (più di 3.600); le congregazioni religiose ancora rimaste furono soppresse e fu proibito l’uso dell’abito ecclesiastico. I sacerdoti sospettati di non giuramento furono colpiti col bando, così che circa 40.000 ecclesiastici persero la loro patria, trovando accoglienza in altri paesi europei.

Nel 1792 si giunse ad una terribile carneficina nelle carceri di Parigi (circa 1.400 vittime, di cui 223 sacerdoti; 191 uccisi sono stati beatificati come martiri).

Il re tentò di fuggire e fu ritenuto un traditore; fu imprigionato con la sua famiglia nel Temple di Parigi. La convenzione nazionale abolì la monarchia e proclamò la repubblica.

Nel 1793 Luigi XVI fu giustiziato, seguito più tardi dalla regina Maria Antonietta d’Austria.

La ghigliottina liberò la repubblica dai suoi nemici; in alcuni luoghi le vittime furono fucilate o annegate in massa.

Fu agevolato il divorzio e si ritenne obbligatorio il matrimonio civile; fu abrogata la legge del celibato ecclesiastico.

I sacerdoti (anche i giurati) furono spinti a lasciare l’ordine e a sposarsi (su circa 30.000 preti giurati, 27.000 lasciarono l’ordine, di cui 7.000 si sposarono).

Alcune suore Orsoline morirono in massa e andarono alla ghigliottina cantando allo Spirito Santo.

Intanto, Prussia ed Austria avevano affermato che il problema della Francia riguardava anche loro; gli eserciti francesi subirono degli attacchi dagli eserciti alleati e all’inizio furono sconfitti, ma poi si ripresero.

Ci fu anche la ribellione della Vandea, che però fu domata.

Iniziò il cosiddetto periodo del terrore.

Fu abolita l’era cristiana, sostituendola col calendario repubblicano; le feste cristiane furono sostituite da quelle repubblicane. Alla fine fu abolito anche il cristianesimo e proclamata la religione della ragione e della natura, ossia l’ateismo.

Celebrazioni sacrileghe con “dee della ragione” profanarono le cattedrali; le chiese furono trasformate in magazzini e stalle. L’organizzazione ecclesiastica si disciolse quasi completamente e i sacerdoti dovettero amministrare i sacramenti nel più segreto nascondimento.

Ma il dominio dell’ateismo totale era troppo squallido per poter resistere a lungo.

Nel 1794 la potenza dei giacobini estremisti (fra cui Danton) fu spezzata da Robespierre, che tolse il culto alla dea ragione e mise il culto all’Essere Supremo. Rimase però inalterato il sanguinoso terrore contro gli ecclesiastici.

Solo quando anche Robespierre finì sotto la lama della ghigliottina e pervennero al potere elementi più moderati, cessò il regno del terrore vero e proprio. Fu consentita la riapertura delle chiese e anche ai sacerdoti non giurati fu concesso di celebrare ancora il servizio divino, purché garantissero la loro sottomissione alla repubblica; molti esiliati poterono ritornare.

Tuttavia, anche sotto il Direttorio non mancarono le tribolazioni e vi furono ancora ecclesiastici giustiziati.

Ci fu anche un tentativo di colpo di stato da parte dei monarchici, appoggiati da alcuni del clero. I contro-monarchici uccisero molti cattolici.

L’ostilità contro il cristianesimo andò gradualmente cessando solo quando divenne primo console il giovane generale Napoleone Bonaparte.

 

NAPOLEONE

 

I Francesi tentarono di introdurre le conquiste della rivoluzione in tutte le terre occupate; le idee rivoluzionarie si diffusero in gran parte dell’Europa. La situazione investì anche l’Italia e il Papato.

Nel 1796 il giovane generale Napoleone Bonaparte (nato ad Ajaccio nel 1769) assunse, per mandato del governo francese, il comando dell’impresa militare nella penisola. Egli costrinse alla pace il re di Piemonte, occupò la Lombardia respingendo gli eserciti austriaci, invase le legazioni pontificie a sud del Po e occupò la repubblica Veneta.

Col trattato di Campoformio del 1797 il territorio veneto fu dato all’Austria in cambio della Lombardia; qui si organizzò, sul modello francese, la Repubblica Cisalpina, alla quale furono annesse la Repubblica Cispadana e molte legazioni pontificie. Altre repubbliche democratiche furono instaurate nel resto della penisola, mentre dal 1798 il Piemonte fu annesso alla Francia.

I rapporti diplomatici dello Stato Pontificio con la Francia erano interrotti da diversi anni, non avendo il Papa accettato come ambasciatori gli ecclesiastici giurati inviati dal governo francese.

Nel 1793, in un tumulto popolare, era morto l’emissario francese Hugon e il caso fu considerato a Parigi come una grave provocazione.

In seguito alle vittorie di Napoleone, nell’armistizio di Bologna del 1796 il Papa fu costretto a cedere, oltre ad Avignone e Venassimo, diverse legazioni, e a consegnare un’ingente quantità di tesori artistici (per un valore di più di 20 milioni di franchi). Con la pace di Tolentino del 1797 dovette cedere anche la Romagna e altri 15 milioni di franchi. Le Marche e parte dell’Umbria, anche se erano ancora dello Stato Pontificio, rimasero occupate dalle truppe napoleoniche.

A Roma la situazione era molto inquieta. L’uccisione del generale Duphot, avvenuta in un tumulto del 1797, diede occasione al Direttorio di ordinare l’occupazione militare della città.

Il potere temporale del Papa fu dichiarato decaduto e si proclamò anche qui la repubblica.

L’ottantenne Pio VI fu deportato nel 1798 a Siena e poi nella certosa di Firenze; un anno dopo fu deportato come prigioniero oltre le Alpi, a Valenza, dove giunse in pessime condizioni di salute. Qui morì nel 1799.

Intanto in Francia, con un colpo di stato, Napoleone rovesciò il debole e ormai malvisto governo e si fece nominare primo console per la durata di 10 anni; suo ministro degli esteri divenne il Talleyrand, ormai del tutto uscito dallo stato clericale (nel 1803 si sposò).

Fu riconosciuta la domenica cristiana e soppresso il calendario repubblicano.

Essendo Roma occupata dai francesi, l’elezione del Papa, dopo la morte di Pio VI, ebbe luogo a Venezia, che era sotto la protezione dell’Austria. Fu eletto Pio VII, dell’ordine dei benedettini, uomo di grande bontà e mitezza, ma di non minore tenacia e forza d’animo.

Intanto, austriaci e napoletani ricacciarono i francesi dalla maggior parte dell’Italia e il Papa poté tornare alla sua sede di Roma.

Nel 1800 Napoleone tornò in Italia e riportò una vittoria sugli austriaci a Marengo; i francesi erano nuovamente i padroni d’Italia.

Però, prima di questa battaglia, aveva convocato il clero, per restituire alla Chiesa la libertà.

Napoleone non fu mai un cattolico perfetto, ma non è che non credesse; era un uomo concreto e considerava la religione come una cosa buona: era indispensabile come sostegno allo stato. Espresse così la sua volontà di riconciliare la Francia col Papato. Durante una celebrazione fece anche cantare il “Te Deum”. Chiese al Papa di mandare qualcuno in Francia per porre riparo alla scissione del popolo.

Comparve a Parigi il segretario di stato Consalvi e la Curia fece grandi concessioni.

Napoleone aveva delle tattiche: si arrabbiava, incuteva timore. Ma Consalvi se ne accorse.

Nel 1801 fu stipulato il concordato francese, che pose di nuovo la Chiesa in Francia su di un fondamento legale, anche se si discostava molto dalla precedente posizione di privilegio; questo concordato rimase in vigore fino alla separazione di stato e Chiesa nel 1905.

Col concordato, Napoleone eleggeva i Vescovi e il Papa doveva istituirli; ma Napoleone nominò alcuni Vescovi segretamente e il Papa protestò.

Egli fece anche redigere segretamente 77 articoli organici, che fece poi pubblicare come legge di stato insieme al concordato, come se si fondassero pure su un accordo con Roma.

Il Papa definì inaccettabili 21 degli articoli, ma Napoleone non se ne curò.

Un’ulteriore difficoltà nasceva dal fatto che quasi la metà dei vecchi Vescovi non giurati, ispirandosi a idee gallicane, ricusavano di dimettersi, per cui si dovette giungere spesso alla deposizione, procedimento spiegabile solo per la necessità delle circostanze.

I Vescovi di Lione e Poitiers, con un piccolo nucleo di fedeli, rifiutarono il riconoscimento del concordato; ne nacque lo scisma della cosiddetta piccola Chiesa, con idee gianseniste; i suoi seguaci, rimasti privi di sacerdoti, ritornarono poco a poco alla Chiesa romana.

Nel 1803 Napoleone concluse con la Santa Sede un concordato analogo a quello francese, per la repubblica italiana (comprendente la Lombardia e tre legazioni dello Stato Pontificio); anch’esso fu reso poi peggiore con l’aggiunta di articoli arbitrari.

Il concordato italiano:

-         riconosceva la religione cattolica come religione di stato;

-         concedeva al presidente della repubblica italiana il diritto di nomina per tutti i vescovati del territorio, riservandone al Papa l’istituzione;

-         richiedeva dai Vescovi nominati il giuramento di fedeltà alla repubblica.

Nel 1804 Napoleone si fece eleggere imperatore dei francesi e invitò a Parigi Pio VII per l’unzione e l’incoronazione. Nonostante le perplessità, egli compì l’unzione; quanto alla corona, Napoleone stesso se la mise sul capo. Il Papa pretese anche il matrimonio religioso di Napoleone.

Pio VII sperava nel ritiro di alcuni articoli organici e nella restituzione delle legazione perdute, ma Napoleone fece solo concessioni di scarso rilievo (ammissione di alcuni ordini religiosi e ripristino seminario per le missioni estere). Le sue mire arrivavano al punto di voler trattenere il Papa in Francia e renderlo pienamente strumento del suo potere assoluto; ma il Papa, in vista di un caso simile, aveva già sottoscritto un documento di abdicazione, così l’imperatore lo lasciò partire.

Appena tornato a Roma, gli fu richiesta la dichiarazione di nullità del matrimonio del fratello di Napoleone, Girolamo Bonaparte, con la protestante Miss Patterson; ciò non fu possibile.

Seguirono altri atti di prepotenza.

Napoleone fece re di Napoli il fratello maggiore Giuseppe Bonaparte. Quando il Papa gli rammentò l’antica supremazia feudale della Sede romana sull’Italia meridionale, l’imperatore minacciò di togliergli lo Stato Pontificio, e diede parti di questo, come feudi francesi, al ministro Talleyrand e al maresciallo Bernadotte.

Nel 1806 il segretario di stato Consalvi fu costretto a dimettersi.

Nel 1808 i francesi entrarono a Roma e alcune province papali (Urbino, Ancona, Macerata, Camerino) furono annesse al Regno Italico.

Un decreto del 1809 ordinò l’annessione dello Stato pontificio all’impero francese.

Pio VII rispose a questa prepotenza con una bolla di scomunica. Dopo di che, fu catturato e condotto prima a Firenze, poi a Grenoble e infine a Savona.

Molti cardinali ebbero ordine di trasferirsi a Parigi, dove potevano essere meglio sorvegliati.

Intanto, Napoleone chiese al Papa la dichiarazione di nullità del suo matrimonio con Giuseppina Beauharnais, ma non gli fu accordato; lui si fece un tribunale ecclesiastico, che dichiarò nullo il matrimonio religioso celebrato per l’incoronazione. La S. Sede era competente per le questioni dell’imperatore, ma Napoleone si rivolse ad un tribunale diocesano (probabilmente aveva ragione).

Nel 1810 l’imperatore celebrò le sue nozze con la granduchessa Maria Luisa, figlia di Francesco I d’Austria. Però, su 27 cardinali, ben 13 (fra cui Consalvi) si rifiutarono di presenziare allo sposalizio, perché l’invalidità del precedente matrimonio non era stata pronunciata dal Papa. Per questo essi furono decardinalizzati e relegati in diverse città della Francia.

Anche Pio VII, nella sua prigionia a Savona, dovette subire gravi tribolazioni, perché rifiutava l’istituzione canonica ai Vescovi nominati dall’imperatore (gli furono tolti perfino i libri, la penna e l’anello).

Il numero dei vescovati vacanti divenne sempre maggiore e napoleone decise di occuparli anche contro il volere del Papa.

Nel 1811 si riunì un concilio nazionale dei Vescovi francesi, sotto la presidenza del cardinale Fesch (zio di Napoleone); si stabilì che, qualora il Papa non concedesse entro 6 mesi l’istituzione canonica ai candidati, competeva ai metropoliti tale diritto.

Una commissione di 5 cardinali riuscì ad ottenere dal Papa l’approvazione, con l’unica condizione che l’istituzione dei Vescovi avvenisse in nome del Papa.

Tuttavia, Napoleone non fu contento e dichiarò sospeso il concordato del 1801.

Nel 1812 il Papa fu portato presso Parigi e l’imperatore allacciò con lui nuove trattative: furono deliberati 11 articoli preliminari per un nuovo concordato, con cui si stabiliva che il Papa avrebbe avuto la sua residenza in Italia o in Francia a avrebbe avuto il diritto di istituire i vescovi, ma la nomina della maggior parte di loro spettava all’imperatore.

Mentre Napoleone festeggiava la conclusione della pace e pubblicava il concordato di Fontainebleau, il Papa era turbato da gravi ansie di coscienza, per aver indirettamente rinunciato allo Stato Pontificio. Perciò, nel 1813 ritirò le concessioni fatte e invitò l’imperatore a nuove trattative.

Ma Napoleone, per aver voluto stravincere, iniziò a crollare.

Nel 1814 il Papa fu liberato e Napoleone dovette sottoscrivere la sua abdicazione, mentre Pio VII fece ritorno a Roma fra le acclamazioni del popolo. Ripristinò anche l’ordine dei Gesuiti.

Quando nel 1815 Napoleone evase dall’isola d’Elba e Gioacchino Murat invase lo Stato Pontificio con le truppe napoleoniche, il Papa dovette rifugiarsi a Genova; ma “l’impero dei 100 giorni” terminò ben presto.

Pio VII si adoperò non poco per il prigioniero di Sant’Elena.

Al congresso di Vienna, il segretario di stato Consalvi riuscì ad ottenere nel 1815 la restituzione dello Stato Pontificio in quasi tutta la sua precedente estensione (eccetto Avignone e Venassino).

Purtroppo, non si riuscì a ridare all’Italia la pace interna, perché non si considerò il desiderio di democrazia.

Il malcontento serpeggiava specialmente negli ambienti colti e nacquero delle società segrete, fra cui la carboneria, che prese carattere antiassolutista e anticlericale; nel 1821 Pio VII la condannò.

 

 

SECOLARIZZAZIONE DELLA CHIESA

 

 L’impero germanico, diviso in tanti staterelli, cominciò ben presto a sentire gli effetti della rivoluzione francese.

Quando nel 1794 i francesi occuparono i territori sulla sinistra del Reno, venne a cessare il potere temporale degli arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza.

In esecuzione del concordato francese del 1801, Treviri e Magonza perdettero il loro carattere metropolitano e Colonia perdette la sede vescovile (divenne diocesi Aquisgrana).

La Chiesa fu spogliata di tutti i suoi beni (non solo il diritto di sovranità) e gli ecclesiastici persero i loro diritti.

Una deputazione di 8 membri del collegio dei principi dell’impero, a Ratisbona nel 1803 operò una spogliazione quasi totale della chiesa germanica, una secolarizzazione generale, cioè una confisca dei suoi beni e dei suoi possessi.

All’inizio i principi laici volevano solo i diritti di sovranità, ma poi spogliarono la Chiesa.

Come era avvenuto in Francia, la Chiesa si staccò dalla nobiltà e si avvicinò alle classi più basse.

Le conseguenze di questa enorme violazione del diritto furono gravi per il cattolicesimo in Germania. La Chiesa perdette quasi tutti i suoi mezzi materiali e si trovò a dipendere dai governi per l’assolvimento dei suoi compiti; gli ecclesiastici divennero dipendenti e stipendiati dallo stato.

Nonostante tutti questi svantaggi, si devono però riconoscere anche alcuni aspetti buoni della nuova situazione.

Gli stati protestanti erano superiori a quelli cattolici, ma la Chiesa si purificò ed iniziò una nuova vita. I vescovati e i canonicati cessarono di essere privilegio della nobiltà e divennero accessibili ad ognuno. Il basso clero fu più democratizzato e aderente alla Chiesa e ai suoi ordinamenti. Sparì quasi da sé una serie di abusi, che le leggi di riforma non erano riuscite ad estirpare del tutto (cumulazione delle cariche ecclesiastiche maggiori, incorporazione della parrocchie, esenzione dei monasteri).

 

GERMANIA

 

Quando Napoleone fece il concordato per Francia e Italia, ne voleva anche uno unico per tutti gli stati tedeschi, ma non fu possibile, perché c’era troppa differenza e i problemi andavano risolti con i singoli stati.

Durante il congresso di Vienna del 1815, il vicario del vescovato di Costanza, Wessenberg, episcopalista radicale e amico del cesaropapismo, sollecitò la conclusione di un concordato unico per l’intera Confederazione Germanica; si mirava con ciò ad una chiesa nazionale tedesca, con un primate alla testa, legata a Roma con rapporti molto blandi e sottomessa all’influsso statale. Ma egli suscitò poca simpatia e Roma si oppose con decisione alle sue tendenze febroniane.

Intanto, dopo la seconda definitiva sconfitta di Napoleone, per desiderio dello zar Alessandro, i monarchi di Russia, Austria e Prussia aveva stretto a Parigi, nel 1815, la santa alleanza: i partecipanti si impegnavano a coltivare la religione, la pace, la giustizia e ad assumere i santi comandamenti del cristianesimo.

Sebbene quasi tutti i sovrani europei aderissero all’alleanza, non si giunse ad una pratica attuazione di quei princìpi, che rimasero solo una bella idea. Tuttavia, è degno di nota il mutamento della mentalità comune, rispetto all’impoverimento religioso dell’età illuministica.

Nella Germania si fecero dei concordati distinti:

-         per la Baviera (cattolica);

-         per la Prussia (protestante);

-         per gli stati renani (misti):

Per prime giunsero a un risultato positivo le trattative con la Baviera, condotte dal Vescovo Haeffelin, ambasciatore bavarese presso la S. Sede; il concordato si concluse nel 1817: il territorio fu ripartito in due province ecclesiastiche; al re fu concesso il diritto di nomina dei Vescovi e al Papa l’istituzione canonica; ai Vescovi era riconosciuto senza limiti il diritto di governare le loro diocesi.

Nella Prussia ogni cittadino aveva una perfetta libertà di fede e di coscienza, ma la corona prussiana esercitava il suo tradizionale diritto di controllo e di governo anche nei confronti della Chiesa cattolica, come anche verso la chiesa protestante. La popolazione cattolica guardava con diffidenza il nuovo governo, perché c’era una preferenza per i protestanti. Dopo 5 anni di trattative con l’ambasciatore prussiano Niebuhr, si arrivò nel 1821 ad una convenzione sui rapporti giuridici, che il re Federico Guglielmo III pubblicò come legge statale.

Gli ostacoli maggiori si ebbero con gli stati renani, ove si trovava il maggior focolaio dell’illuminismo e delle tendenze cesaropapiste del tempo. Una conferenza a Francoforte nel 1818 deliberò alcuni lineamenti fondamentali per un accordo con Roma, pienamente imbevuti dello spirito di Febronio. Dopo difficili trattative, si arrivò ad un concordato nel 1821. Però, ci furono dei problemi perché i governi, con un gioco sleale, voleva eleggere i Vescovi a modo loro: ci fu una bolla papale integrativa nel 1827, che portò ulteriori disposizioni sull’elezione vescovile. I governi pubblicarono la bolla integrativa, ma con la riserva dei diritti sovrani dello stato e omettendo alcuni articoli.

Accanto al riordinamento esterno della Chiesa tedesca, si compì un interiore rinnovamento del cattolicesimo. Esso fu notevolmente incrementato e sostenuto dalla corrente del romanticismo, che seppe ridestare la nostalgia per la religione e la Chiesa.

Principali esponenti del movimento di ricostruzione cattolica furono dapprima gruppi isolati di ecclesiastici e laici colti.

Nel 1814, in Baviera, a difesa della religione cattolica, si riunì l’unione dei Confederati; anche presso le università di Landshut e di Monaco si radunarono delle forze cattoliche intente ad un elevato ideale. Presto cominciò anche a svilupparsi la vita delle associazioni cattoliche e tornarono a rifiorire gli ordini religiosi. In questo movimento di ripresa cattolico, i laici ebbero una parte molto maggiore che in passato.

C’era anche un atteggiamento combattivo dei cattolici che appoggiavano il Papa.

In Baviera il re Luigi I non voleva rinunciare al diritto di tutela e di controllo dello stato sulla Chiesa; tuttavia, egli fu giusto e benevolo, permettendo liberi rapporti dei vescovi con la Curia. Quando nel 1848 il re abdicò, i Vescovi bavaresi chiesero l’esecuzione del concordato e riuscirono ad avere qualche concessione.

Nel regno della Prussia fu la contessa di Colonia a liberare la Chiesa dai ceppi statali. Qui le intromissioni del potere statale erano particolarmente gravi, specialmente nel campo dei matrimoni misti. La Prussia era protestante e c’era la legge che i figli dovevano essere battezzati nella religione del padre; per i matrimoni misti ci furono problemi, perché i sacerdoti non benedivano i matrimoni senza la promessa di un’educazione cattolica per i figli. Anche Papa Pio VIII nel 1830 decise che, nel caso di matrimoni misti fatti senza garanzia dell’educazione cattolica della prole, il sacerdote doveva solo prestare un’assistenza passiva. Il governo prussiano cercò di indurre la S. Sede a modificare la disposizione, ma invano. L’arcivescovo Spiegel si lasciò indurre dall’ambasciatore prussiano a Roma a fare una convenzione segreta, che interpretava in maniera diversa la suddetta disposizione; alcuni Vescovi vietarono di richiedere prima del matrimonio l’impegno all’educazione cattolica della prole. Dopo varie richieste di ritrattazione, nel 1837 Spiegel si dichiarò pronto ad attenersi alle disposizioni pontificie; fu arrestato come violatore degli impegni assunti e agitatore rivoluzionario. Anche gli altri Vescovi dichiararono di recedere dalla convenzione. Il governo finì col permettere che i sacerdoti assumessero “discrete informazioni” sull’educazione confessionale dei figli nei matrimoni misti; nei casi dubbi, si rimetteva la decisione al Vescovo.

Sotto il nuovo re Federico Guglielmo IV si ebbe una svolta decisiva, perché egli aveva un maggior senso di giustizia verso la Chiesa cattolica e mirò alla pace. Fu concessa ai Vescovi libertà di rapporti con la S. Sede e rimise interamente a loro la decisione circa i matrimoni misti. Da allora la Chiesa cattolica godette in Prussia una libertà d’azione come forse in nessun altro luogo della Germania. Nel parlamento prussiano, nel 1852, si formò anche una frazione cattolica, chiamata poi frazione del centro.

Negli stati renani erano necessari maggiori sforzi per procurare alla Chiesa la libertà d’azione e molti Vescovi dovettero unirsi in un’azione comune. Nel 1848 ci fu l’anno delle rivoluzioni, che spazzò via in Germania l’assolutismo dei sovrani e lo stato poliziesco; in quell’anno, l’assemblea nazionale di Francoforte affermò l’autonomia delle associazioni religiose. Anche i cattolici giovarono della libertà di stampa e di associazione.

 

FRANCIA

 

In Francia, dopo la caduta di Napoleone, salì al trono Luigi XVIII e si riallacciarono le trattative con la S. Sede, fino ad arrivare ad un concordato nel 1817, che però non ebbe l’approvazione delle camere: si conservò, perciò, la situazione ecclesiastica che Napoleone aveva creato.

Intanto, di fronte alla nobiltà non si schierava soltanto la borghesia, ma anche il quarto stato allora nascente, cioè la classe degli operai dell’industria insoddisfatti delle loro condizioni sociali.

A Luigi XVIII successe il fratello Carlo X, rigido sostenitore della Chiesa, che abolì la libertà di stampa e sciolse la seconda camera.

Nel 1830 si ebbe allora la cosiddetta rivoluzione di luglio, che rovesciò Carlo e innalzò a re dei francesi il borghese Luigi Filippo d’Orléans. Questa rivoluzione ebbe carattere anticlericale.

Nel 1848 ci fu un’altra rivoluzione che ricostituì in Francia la repubblica; i cattolici si divisero in due correnti:

-         conservatori;

-         moderatori, che volevano un rinnovamento.

C’era molta instabilità.

La presidenza di Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone, si trasformò presto nell’impero di Napoleone III. Egli coltivò buoni rapporti con la Chiesa, valendosi della religione per sostenere lo stato; tuttavia, fece anche molte concessioni al liberalismo: comunque, ciò favorì la fioritura di molti ordini e congregazioni religiose, nonché di associazioni cattoliche.

Iniziavano però a dilagare anche l’indifferentismo religioso e l’incredulità. Uomini eccellenti, soprattutto oratori e scrittori, cercarono di riabilitare il cristianesimo agli occhi dei contemporanei (Chateaubriand, Maistre, Bonald); ma tutti gli sforzi non riuscirono ad annullare le conseguenze della lunga anarchia politica e religiosa dell’epoca rivoluzionaria.

Desiderosi di un rinnovamento, intorno al 1830, Lamennais e il suo gruppo, i cosiddetti cattolici liberali democratici proposero la libertà politica incondizionata dei popoli e la separazione fra stato e Chiesa; il Papa condannò tali idee e Lamennais si staccò dalla Chiesa: si allontanò dal sacerdozio e dalla vita cristiana (ci teneva troppo alle sue idee ed era un po’ vanitoso); divenne socialista e libero pensatore, morendo senza riconciliarsi.

Dal 1843 fu capo dei cattolici antiliberali lo scrittore Veuillot.

I cattolici si adoperarono specialmente per la libertà nel campo della scuola, dato che il monopolio statale dell’insegnamento favoriva l’ateismo.

 

 

GRAN BRETAGNA

 

 In Gran Bretagna i cattolici erano stati, per lungo tempo, oppressi; non erano cittadini con tutti i diritti: chi non faceva la professione di fede anglicana era radiato. Nel 1700 era stato tolto loro il diritto di eredità e di possesso: erano cittadini inferiori.

Con la rivoluzione francese ci fu qualche alleviamento. Fu riconosciuto loro il diritto di istituire scuole, di rivestire le cariche statali inferiori, l’elettorato attivo e l’accesso alle cariche militari fino al grado di colonnello.

In Irlanda alla concessione di ulteriori diritti si oppose il re Giorgio III.

Solo il moto popolare del 1823, guidato dall’avvocato O’Connell, detto “il liberatore”, portò all’equiparazione civile dei cattolici in tutto il regno. Egli portò avanti una campagna della non violenza.

Il governo del 1829 fece approvare presso ambedue le camere l’emancipazione dei cattolici, che ottennero così l’accesso al parlamento e a tutti gli uffici e cariche statali; non potevano, però, salire alla corona, anche se riacquistarono importanza nella vita pubblica.

In Inghilterra il numero dei cattolici cominciò ad aumentare fortemente (fino allora circa 70.000), non solo per l’immigrazione dall’Irlanda, ma anche per le conversioni degli inglesi protestanti. Al precedente stato di oppressione subentrò una vivacità attiva e un nuovo coraggio.

In seno alla chiesa di stato anglicana sorse un movimento cattolicizzante che, a partire dall’università di Oxford nel 1833, portò numerose conversioni: questo movimento era noto col nome di tractarianismo, o anche di puseysmo o ritualismo; vi facevano parte, tra l’altro:

-         Giovanni Kebler,

-         Riccardo Froude,

-         Eduardo Hupsen.

Gli aderenti a questo movimento non accettavano l’intervento dello stato per dirigere la Chiesa; dicevano anche che la Chiesa indipendente era quella delle origini e il punto di riferimento era Roma.

Newman, il più illustre di essi, passò al cattolicesimo nel 1845, dopo un approfondito studio dei santi Padri, e si fece subito sacerdote; trapiantò in Inghilterra, da Roma, la Congregazione di S. Filippo Neri. Nel 1879 il Papa Leone XIII lo fece cardinale. All’inizio lui diceva che Roma non era quella di prima, ma poi concluse che Roma si era aggiornata, senza però deviare.

Il Papa Pio IX ebbe il coraggio di ripristinare la gerarchia cattolica inglese; con lui, i cattolici da 60.000 arrivarono a 700.000.

 

AMERICA

 

Nell’America settentrionale si andò costituendo una considerevole popolazione cattolica; erano, per lo più, popolazioni europee in fuga per trovare la libertà durante le lotte di religione, per rifarsi una vita senza condizionamenti e in base ai loro principi.

Il Canada, originariamente colonia francese, passò all’Inghilterra, dopo una sanguinosa guerra, con la pace di Parigi del 1763. Dopo iniziali tentativi di oppressione, il nuovo governo concesse ai cattolici la libertà religiosa. Nel 1829 fu data loro la piena emancipazione.

Negli USA l’incremento della Chiesa cattolica fu ancora più sorprendente. Centro di sviluppo fu il Maryland: la persecuzione in Inghilterra contro i cattolici aveva indotto il convertito Baltimore e i suoi figli a cercare una nuova patria al di là dell’Oceano, fondando nel 1634 la colonia del Maryland (si chiamò così in onore della regina cattolica Enrichetta Maria, moglie di Carlo I d’Inghilterra).

Nel 1640 il consiglio del Maryland emanò un atto di tolleranza, garantendo a tutte le confessioni cristiane il libero esercizio del culto. Tuttavia, i protestanti immigrati, che erano la maggioranza della colonia, abusarono della loro potenza emanando contro i cattolici dure leggi penali (sottrazioni diritti civili, doppia tassazione, proibizione a celebrare la Messa e a tenere scuola).

La lotta di liberazione degli USA dal dominio inglese aprì però la via anche alla libertà religiosa.

Nel 1787 la costituzione dell’Unione dichiarò che non si doveva fare alcuna discriminazione religiosa per il conferimento di un ufficio pubblico.

Nel 1789 il congresso nazionale ordinò la separazione di stato e Chiesa.

Nel 1791 si vietò l’introduzione di una religione privilegiata e ogni limitazione alla libertà di stampa, di parola e di riunione.

Lo stato si ritenne incompetente in materia religiosa.

Essendo l’organismo ecclesiastico così esteso nello spazio e composto da un insieme vario di nazionalità, si esplicò nella Chiesa nordamericana una ricca vita sinodale.

Nel 1829 ebbe luogo a Baltimora il primo sinodo provinciale, al quale fecero seguito altri sei fino al 1849.

Nell’America centrale e meridionale la religione cattolica fu religione di stato finché durò il predominio della Spagna e del Portogallo. Molti indigeni si convertirono.

Dopo la rivoluzione francese e americana, maturò anche qui l’impulso di un grande moto d’indipendenza. Il Papa Leone XII si dichiarò a favore dei diritti della corona spagnola, ma poi dovette allacciare rapporti diretti con le nuove repubbliche, per poter almeno provvedere alle sedi vescovili vacanti.

In queste terre la massoneria contava numerose logge ed era spiccatamente rivoluzionaria e anticlericale. Perciò, quando saliva al potere il partito liberale, ne seguivano di regola l’incameramento dei beni ecclesiastici, la soppressione dei monasteri, l’espulsione dei Gesuiti, l’introduzione del matrimonio civile. Purtroppo, l’educazione e la cultura del clero e dei religiosi lasciava molto a desiderare, per cui la vita religiosa ed ecclesiastica del popolo era scadente o spesso corrotta da superstizione pagana. L’attività di missione fra i pagani fu molto trascurata.

 

 

TEOLOGIA PROTESTANTE

 

In Germania il rinnovamento del 1800 non coinvolse solo il cattolicesimo, ma anche il protestantesimo.

Le scienze filosofiche e teologiche furono coltivate dai protestanti col massimo interesse e zelo. I risultati migliori si ebbero nel campo delle ricerche bibliche, della storia ecclesiastica e della storia dei dogmi.

La filosofia idealista tedesca, specialmente il criticismo di Kant, esercitò l’influsso più forte sulla mentalità dei teologi. Egli diceva che l’esistenza di Dio non si può provare (Critica ragion pura) ma occorre adempiere al dovere per dovere (Critica ragion pratica); poneva la religione entro i limiti della ragione.

C’erano anche la filosofia di Fiche, di Schelling e di Hegel, che erano sì romantici, ma avevano una tendenza al panteismo.

Purtroppo, molti teologi abbracciarono la concezione idealista di questi filosofi.

Strauss interpretò la figura biblica di Gesù come un mito, cioè un prodotto dell’invenzione della comunità cristiana primitiva, cercò di trasformare i dogmi in concetti filosofici e pervenne ad un panteismo che è quasi materialismo.

Bauer fece una critica radicale della Bibbia.

Non mancarono credenti che si fecero difensori risoluti e dotti, ma la teologia liberale manteneva un largo campo. Suoi esponenti principali furono: Schleiermacher e Baur.

Schleiermacher fu il fondatore della teologia protestante moderna, dando ad essa il suo vero e proprio oggetto: cercare di comprendere Gesù Cristo. Egli esaltò la religione come un sentimento immediato della diretta dipendenza dall’infinito e disse che in Cristo la coscienza del divino aveva raggiunto il massimo grado d’intensità (perciò aveva potuto salvare l’umanità). Separò scienza e fede: la teologia deve studiare le esperienze religiose dei vari fondatori di religione, in special modo nella Chiesa cristiana; i dogmi dipendono dalla mentalità del tempo in cui sono stati espressi, per cui sono soggettivi; la dogmatica è una disciplina storica. Tuttavia, egli sostenne anche la continuità storica del cristianesimo e la necessità della Chiesa.

Baur rimproverò a Strauss di aver presentato una storia evangelica senza una critica metodica dei Vangeli; per il resto, fu d’accordo con lui nel rigettarne il carattere soprannaturale. La sua critica al canone del NT fu molto negativa: secondo lui, solo le 4 maggiori lettere paoline e l’Apocalisse risalgono agli Apostoli. Per lui la storia della Chiesa primitiva è determinata essenzialmente dalla lotta tra paolinismo e giudaismo (cioè petrinismo).

Fuori della Germania la teologia protestante era meno attiva e meno varia nei suoi orientamenti.

Un solitario pensatore e scrittore religioso molto profondo fu il teologo danese Kierkegaard, che mise in mostra l’insufficienza del cristianesimo ufficiale amico della cultura mondana, nonché della chiesa statale dominante nella sua patria. Lottò energicamente per una concezione ascetica e interiore del cristianesimo, che era però anche del tutto individualista. Ancora oggi esercita un influsso considerevole.

 

GREGORIO XVI

 

Dal 1831 al 1836 fu Papa Gregorio XVI, dell’ordine camaldolese, uomo di buona cultura teologica e canonista; egli era inesperto e ingenuo in politica: fu troppo conservatore e creò malcontento.

Nello Stato Pontificio ci furono diverse insurrezioni, che si poterono reprimere solo con l’intervento degli austriaci, che occuparono Bologna. Insurrezioni successive furono domate dalla milizia pontificia. Già dal 1821 erano state presentate delle proposte di riforma dello Stato Pontificio, ma non furono attuate. C’era anche chi si opponeva addirittura ad introdurre il nuovo mezzo di comunicazione delle ferrovie e l’illuminazione a gas.

La Curia aveva anche un atteggiamento ostile nei confronti del movimento unitario nazionale, che tentava di attuare l’ideale del risorgimento italiano per vie diverse.

Il partito radicale della Giovane Italia fondato nel 1831 e guidato da Giuseppe Mazzini, era fondamentalmente rivoluzionario e avverso alla Chiesa; esso estese a tutta l’Italia una rete di società segrete miranti al rovesciamento dei tiranni, in particolare della sovranità papale. Perfino il clero era in parte infetto da idee rivoluzionarie.

C’erano poi i patrioti moderati, i cosiddetti neoguelfi, che pensavano ad una federazione di stati italiana, di cui il Papa avrebbe dovuto assumere la presidenza; essi valutavano positivamente i progressi portati dalla rivoluzione francese e volevano volgerli al bene stesso della Chiesa. Tra loro c’erano:

-         lo scrittore romantico Alessandro Manzoni,

-         il sacerdote e filosofo Vincenzo Gioberti,

-         il sacerdote e filosofo Antonio Rosmini,

-         lo statista Cesare Balbo,

-         lo statista Massimo d’Azeglio.

Si faceva sempre più chiara la coscienza di tutti gli italiani di essere una nazione, a cui non si poteva negare l’unità.

Queste esigenze, però, erano problematiche per lo Stato Pontificio, perché ne segnavano la fine.

Ci sono 2 teorie sulla sua nascita:

- Haller dice che il potere del Papa è sorto durante il Medioevo (ha ragione se si riferisce al potere temporale, mentre è in errore se riguarda il potere nella Chiesa, che ha avuto da sempre);

- Donatio Costantino dice che sarebbe stato Costantino a dare potere al Papa (non è così, ma è un potere sempre avuto).

Lo Stato Pontificio aveva un patrimonio molto elevato, lasciato da benefattori, che era amministrato dalla Chiesa. C’erano 3 elementi nella costituzione dello Stato Pontificio: patrimonio ecclesiale, privilegi dei Vescovi e vuoto di potere. Infatti, l’imperatore d’Oriente non riusciva a governare l’Italia e il Papa prese il suo posto. Ma egli sentiva la necessità di un’autonomia; c’erano 2 atteggiamenti:

-         si cercava di distaccarsi;

-         si difendeva l’Italia dagli attacchi dei Longobardi.

Quando i Longobardi cercarono di attaccare Roma, il Papa Stefano I strinse i rapporti con Pipino, che sconfisse i Longobardi e fece la sua prima donazione al Papa (circa Lazio, Umbria, Marche e Romagna). Una conferma ci fu 20 anni dopo con Carlo Magno, figlio di Pipino, al Papa Adriano I. Dal 1781 non si fece più riferimento all’imperatore d’Oriente, ma direttamente al Papa; si usarono le prime monete a parte. Nel 1800 Carlo Magno fu incoronato imperatore dal Papa e tra i due si fece un accordo: l’imperatore doveva mantenere l’ordine pubblico e il Papa veniva eletto dai cardinali senza l’imperatore. Dopo la morte di Bonifacio VIII, il papa si trasferì ad Avignone, per sicurezza, mentre a Roma c’era l’anarchia. Quando il Papa tornò, acquistò più potere e divenne sempre più indipendente dal potere temporale. Ma ora la situazione era diversa: ciò che nel passato era stato utile ora non lo era più. Si cercava di dare svolgimento alle esigenze nate dopo il Concilio di Vienna: unione in un unico stato, governo democratico e maggiore autonomia del potere civile da quello ecclesiastico. Lo Stato Pontificio era al suo tramonto.

 

 

PIO IX

 

Lo Stato Pontificio era all’orlo della rivoluzione quando divenne Papa Pio IX, nel 1846. Egli era sacerdote dal 1819, cappellano in un orfanotrofio e poi assistente spirituale in un centro anziani. Nel 1827 divenne Vescovo di Spoleto, nel 1840 cardinale e poi Papa. Quando fu eletto (c’erano anche i cardinali Gizi e Lambruschini) sembrava un moderato progressista; si sforzò di soddisfare il legittimo desiderio di una maggiore libertà e di un riordinamento politico. Fu per una certa apertura: diceva che occorreva andare incontro all’esigenza del popolo che voleva fare da sé. La massa lo accoglieva festosamente e con entusiasmo. Fece numerose riforme: concesse l’amnistia ai numerosi prigionieri politici, fu mitigata la censura, fu aperto ai laici l’accesso ai diversi ministeri. Nel 1848 proclamò uno statuto con due camere: una eletta dal Papa e l’altra dal popolo; entrambe dovevano essere subordinate al collegio cardinalizio, in qualità di senato. Si parlava ormai del mito di Pio IX e lo si vedeva già alla testa del movimento unitario, destinato ad espellere gli austriaci e a rinnovare la nazione.

Per l’unità d’Italia si prospettavano 4 soluzioni:

-         una confederazione di monarchie, con presidente il Papa;

-         una monarchia unitaria;

-         una confederazione di repubbliche;

-         una repubblica unitaria.

I fautori di queste soluzioni si combattevano fra di loro. C’erano 2 partiti: liberale estremista (usava la violenza) e liberale moderato (usava il ragionamento).

Il Papa accettava la confederazione di repubbliche, perché non si toglieva nulla agli stati. A tal fine, fece delle trattative per una lega doganale (per facilitare gli scambi commerciali) e difensiva fra gli stati italiani, mentre Carlo Alberto voleva una lega politica (in occasione del battesimo della figlia accettò, ma ormai era troppo tardi).

Quando nel 1848 Carlo Alberto entrò in guerra con l’Austria, Pio IX non si lasciò trascinare nell’offensiva, ma cercò di unire il Piemonte alla lega difensiva; esso, però, che non voleva interventi nel suo gioco politico, non accettò.

Il Papa intervenne per placare delle reazioni scismatiche in Austria e in Germania, ma ciò fu visto come un tradimento. I fatti precipitarono e scoppiò la I guerra d’indipendenza, a cui parteciparono reparti della Toscana e anche dello Stato Pontificio.

Carlo Alberto voleva seguire una politica propria: voleva conquistare l’Italia settentrionale scacciando gli austriaci ed eliminando ogni influenza meridionale, soprattutto da Napoli.

I primi a ritirarsi furono proprio i napoletani; poi si ritirò anche Pio IX, che non voleva fare la guerra ad un altro stato cattolico (lui voleva difendersi e non attaccare). Il Papa, minacciato e assediato dalla plebaglia, dovette fuggire a Gaeta, travestito da prete semplice.

Intanto, a Roma, nel 1849, un’assemblea costituente, con maggioranza mazziniana, dichiarò decaduto il potere temporale e proclamò la repubblica: a capo del governo fu posto il triumvirato composto da Mazzini, Saffi e Armellini.

Il Papa invocò l’aiuto delle potenze europee; dopo una dura lotta, le truppe francesi occuparono Roma e riportarono la sovranità papale. Il Papa aveva chiesto aiuto anche al Piemonte, che non volle intromettersi per mantenere i rapporti con la repubblica romana. Si voleva dividere l’Italia in tre parti: nord, sud e centro (in accordo Toscana e Stato Pontificio). Anche Gioberti si era offerto per fare un accordo con Roma, ma era stato costretto a dimettersi.

Comunque, Carlo Alberto fu sconfitto; il Papa tornò a Roma e abolì tutte le concessioni fatte, ma lasciò lo statuto che aveva fatto. La guerra si chiuse, ma il fallimento si deve a Carlo Alberto e non a Pio IX, come si dice.

Fu rinnovato l’antico regime assolutistico, ma si lasciò ai laici una parte nell’amministrazione provinciale e comunale. A protezione del Papa rimase a Roma una guarnigione francese. Le legazioni settentrionali rimasero occupate dagli austriaci. Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II.

 

UNITA’ D’ITALIA

 

Dopo il fallito tentativo di riforma di Pio IX, le condizioni dello Stato Pontificio si fecero sempre più precarie. Svanito il sogno di una federazione italiana di stati sotto la guida del Papa e rivelatasi impossibile anche la costituzione di una repubblica, gli sguardi dei patrioti italiani si volsero verso il regno di Piemonte e Sardegna, dove il nuovo re Vittorio Emanuele II conservava lo statuto albertino.

Il primo ministro Camillo Benso conte di Cavour diceva che occorreva la “libera Chiesa in libero stato”, ma in realtà ci furono non poche violazioni dei diritti e della libertà della Chiesa. Non era proprio anticlericale: accettava la Chiesa e la sua funzione sociale, ma essa doveva rinunciare a certi privilegi. Però, trovò a Torino l’opposizione dei cattolici, che erano molto conservatori. Egli era preoccupato anche per la scarsezza delle vocazioni e chiese l’esenzione dal servizio militare per i chierici. Quindi, da una parte voleva che la Chiesa si aggiornasse e dall’altra voleva che essa lasciasse liberi gli altri per avere libertà.

Per arrivare all’unità nazionale, cercò di acquistarsi l’aiuto della Francia.

Già nel 1856, al congresso di Parigi tenuto dopo la guerra di Crimea, egli pose la questione italiana. Voleva accusare l’Austria di essere responsabile della questione italiana.

Nel 1857 si costituì la società nazionale italiana, che univa le varie forze: si riteneva che solo il Piemonte poteva unire l’Italia.

Nel 1858 si decise un’alleanza con Napoleone III.

Nel 1859 ci fu la guerra contro l’Austria e, con la vittoria di Villafranca, ci fu l’annessione della Lombardia al Piemonte.

Quando gli austriaci, su sollecitazione del Papa, ritirarono le loro truppe dallo Stato Pontificio, ci fu la ribellione di Romagna, Marche e Umbria al governo papale; esse chiesero di unirsi al regno di Piemonte e Sardegna, cioè al regno d’Italia in formazione. Invano il Papa lanciò la scomunica contro quanti cooperavano a depredare lo Stato Pontificio.

Anche i sudditi di Toscana, Modena e Parma spodestarono i loro sovrani ed entrarono a far parte della nuova unità statale.

Con la pace di Zurigo si accettò la situazione dell’Italia; Francia e Austria si impegnarono a non intervenire. Cavour, che si era ritirato, tornò al governo e sfruttò la situazione per unire Toscana ed Emilia al Piemonte.

Nel 1860 il condottiero Giuseppe Garibaldi, fanatico anticlericale, conquistò con i suoi Mille la Sicilia e Napoli, rovesciando il sovrano Francesco II di Borbone. Garibaldi voleva collaborare all’unità d’Italia. Vittorio Emanuele II credeva in lui, ma Cavour no. L’Inghilterra entrò in gioco ed allora la Francia fu costretta ad appoggiare la spedizione dei Mille. Il 5 maggio1860 Garibaldi sbarcò a Milazzo, mentre le navi inglesi non permisero alle navi napoletane di sparare alle flotte garibaldine. Dopo uno scontro con i napoletani, capeggiati da ufficiali olandesi (cui non interessava l’unità d’Italia), Garibaldi conquistò Palermo; ad agosto arrivò in Calabria e a settembre fu a Napoli. L’ammiraglio Scrugli, la sera precedente, si era presentato dal re, ma non lo appoggiava più per unire l’Italia; perciò, non impedì l’ingresso di Garibaldi a Napoli.

Cavour temette che Garibaldi proclamasse la repubblica; volle andare al sud e chiese allo Stato Pontificio di poter passare, ma il Papa non diede il permesso. Cavour intimò al Papa, con un ultimatum, di licenziare le truppe straniere che lo difendevano; avutone un rifiuto, fece occupare Umbria e Marche: l’esercito papale fu sconfitto a Castelfidardo e ad Ancona.

Garibaldi aveva avuto l’appoggio del re, ma non aveva fede monarchica: voleva la repubblica.

Cavour intervenne e Garibaldi fu costretto a ritirarsi a Caprera. Fu proclamata la monarchia.

Nel 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia.

All’unità nazionale mancavano ormai solo il Veneto e Roma col patrimonio di S. Pietro.

Lo Stato Pontificio era così ridotto solo a Roma. La S. Sede ebbe dei momenti di incertezza (avendo perso Marche ed Umbria) e tentò di arrivare alla pace.

C’era necessità di ridimensionare lo Stato Pontificio, rinunciando al potere temporale. Il Papa, però, aveva bisogno del potere temporale per difendere il cristianesimo, visto che il Piemonte aveva promulgato leggi anticlericali (c’era un sentimento religioso da difendere a livello nazionale).

Dopo Gaeta il Papa si disinteressò dei problemi politici, occupandosi solo dei problemi religiosi.

Quando si fece il regno d’Italia, il Papa ribadì la sua opposizione. Ma poi morì Cavour (se non fosse morto si sarebbe potuta trovare una soluzione); ricevette i sacramenti nonostante la scomunica, ma il religioso che lo assolse fu punito.

Dopo il 1861 il governo italiano usò la mano pesante contro gli oppositori: molti cardinali furono processati e messi agli arresti domiciliari.

Nel 1862 Garibaldi, con dei volontari, andò in Aspromonte (Calabria) per marciare su Roma. Il governo italiano lo fermò.

Nel 1864 il governo italiano si impegnò verso la Francia a non attaccare lo Stato Pontificio, ma anzi a difenderlo dagli attacchi stranieri.

La III guerra d’indipendenza iniziò nel 1866 con la Prussia.

L’accordo con la Francia non fu mantenuto, perché nel 1867 Garibaldi, incitato dal Piemonte, irruppe con i suoi volontari nello Stato Pontificio: fu battuto a Mentana dalle truppe pontificie e francesi.

Con la guerra franco-germanica, il potere di Napoleone III s’infranse nel 1870 a Sedan e i Piemontesi colsero l’occasione per occupare Roma, compreso il quartiere vaticano. Infatti, la guerra tra Francia e Prussia (Bismark) si concluse con la vittoria dei prussiani (l’Italia era appoggiata dai prussiani). Dopo l’ultima petizione del Papa, con la breccia di Porta Pia, Roma fu occupata e il Papa si rifugiò nell’attuale Città del Vaticano.

Nel 1871 Roma divenne la capitale del Regno. Il conflitto tra papato e regno italiano era giunto al culmine.

Con la cosiddetta legge delle guarentigie, lo stato italiano cercò di regolare per conto proprio i rapporti con la S. Sede: riconobbe l’inviolabilità e i diritti sovrani  del Papa; gli concesse una rendita annua di 3.250.000 lire (esente da tasse); gli assegnò in uso i palazzi del Vaticano e del Laterano, nonché Castel Gandolfo con i relativi dintorni; si rese garante del libero e indisturbato esercizio del suo ufficio spirituale. Inoltre, i Vescovi italiani erano nominati liberamente dal Papa e lo stato rinunciava al giuramento di fedeltà.

Pio IX rifiutò questa legge, perché rimaneva comunque cittadino italiano.

Da allora egli fu il “prigioniero del Vaticano”.

Dapprima i rapporti tra Stato italiano e Chiesa furono molto tesi: nel 1887 ci fu un tentativo di accordo tra Crispi e Leone XIII, tramite padre Tosti; con i governi successivi è stata rispettata la libertà del Papa e si riconosce il territorio vaticano come uno stato indipendente (l’11 febbraio 1929 c’è stato il trattato di pace con i Patti Lateranensi, revisionati poi nel 1984: ci sono delle zone extraterritoriali, cioè le 4 basiliche e Castel Gandolfo).

Con l’unità d’Italia c’erano delle leggi antiecclesiali e sorse l’intransigentismo, cioè molti cattolici, fedeli al Papa anche sul piano politico, si associarono per la difesa della religione e della Chiesa: in nome dei principi religiosi e morali, opposero un atteggiamento di protesta e di rifiuto all’unità nazionale (adottarono l’astensionismo elettorale per le elezioni politiche). Organo del movimento fu l’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici fondata nel 1875.

Tuttavia, nonostante queste problematiche esterne, la vita interna della Chiesa fu ricca di eventi.

Roma divenne sempre più il centro di tutto il governo della Chiesa: la dipendenza diretta dei vescovi dal Papa si accentuò sempre più; l’organizzazione ecclesiastica fece dei progressi (soprattutto col ripristino della gerarchia cattolica in Inghilterra e Olanda); furono fondati nuovi vescovati; l’ordine dei Gesuiti acquistò notevole influenza, distinguendosi specialmente come sostenitore del potere universale del papato.

Intanto, l’8 dicembre del 1854 Pio IX aveva dichiarato il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Molti Vescovi avevano già chiesto l’intervento del Papa per la definizione del dogma. Il gesuita Perrone aveva pubblicato uno scritto sulla possibilità di questo dogma (si trova indirettamente nella Scrittura e nella Tradizione). Una commissione aveva fatto degli schemi, ma poi fu sciolta; una seconda commissione fece lo schema del documento. Il 20 novembre il Papa aveva invitato i Vescovi a discutere sulla bolla, per vedere se il dogma era stato sviluppato bene (non doveva discutere sul dogma). L’8 dicembre il Papa lo definì di sua autorità, senza il concorso dei Vescovi (era un’affermazione dell’autorità del Papa).

Occorreva pronunciarsi anche sulle idee del tempo, perché sembravano prevalere le dottrine anti-clericali.  Il Vescovo Gebert aveva pubblicato una sua enciclica, con 85 proposizioni che condannavano le idee del tempo. Un’apposita commissione partì da queste proposizioni e le ridusse a 61. Il Papa diede ai vescovi lo schema dei 61 articoli, ma in segreto (il segretario francese ne entrò subito in possesso!). Un’altra commissione fece una sintesi di questi articoli. In Francia c’erano molti cattolici progressisti. Nel 1863 i progressisti del Belgio si riunirono e ci fu una condanna esplicita delle dottrine del tempo. Il Vescovo che fece questa condanna esplicita fu richiamato.

Ma l’8 dicembre 1864 Pio IX emise l’enciclica Quanta cura, il cosiddetto Sillabo, cioè un compendio di 80 dei principali errori del tempo, circa il panteismo, il naturalismo, il razionalismo, l’indifferentismo, il liberalismo, il socialismo, ecc. Molti videro in questo documento una dichiarazione di guerra contro la civiltà moderna (in realtà, la condanna riguarda solo quegli aspetti che sono in contrasto con la rivelazione soprannaturale).

Si parlava della libertà di coscienza e di religione: dinanzi a Dio non possiamo scegliere la religione o avere una libertà di coscienza, ma dobbiamo scegliere quello che vuole Dio, anche se nessuno ce lo può imporre; quindi, esternamente abbiamo una libertà, ma non internamente.

Si parlava anche della riconciliazione con le dottrine progressiste: il Papa non aveva mai condannato e, quindi, non c’era necessità di riconciliazione. Doveva esserci, semmai, libertà di espressione delle proprie idee.

 

 

 

 

CONCILIO VATICANO I

 

Nel dicembre 1864, due giorni prima della pubblicazione del Sillabo, Pio IX per la prima volta manifestò segretamente ai cardinali la sua intenzione di convocare a Roma un nuovo concilio ecumenico, a oltre 300 anni dal concilio di Trento.

Lo voleva convocare per il 1867, alla festa dei SS. Pietro e Paolo, ma non fu possibile.

Notificò pubblicamente la sua intenzione proprio nel 1867 ai numerosi vescovi e fedeli convenuti per la celebrazione centenaria del martirio dei Principi degli Apostoli.

Il 29 giugno 1868 uscì la bolla di convocazione: non si parlava di un argomento particolare da trattare, perché era il concilio che avrebbe trattato gli argomenti di cui c’era necessità.

All’inizio questo concilio fu accolto positivamente, ma poi incontrò nell’opinione pubblica una certa irritazione, perché un articolo della Civiltà Cattolica del 1869 lasciò capire che dal concilio ci si aspettava soprattutto la definizione del dogma dell’infallibilità papale, da accogliersi per semplice acclamazione; inoltre, ci sarebbe stata anche una ripetizione del Sillabo, ribadendolo più esplicitamente.

I vescovi della Germania emanarono una lettera pastorale tranquillizzante, ma dichiararono al Papa che non era il tempo opportuno per una simile definizione: essi non erano contrari all’infallibilità papale, ma non volevano creare ulteriori dissidi con i protestanti.

Dopo complessi preparativi, il concilio si aprì l’8 dicembre 1869 in S. Pietro, alla presenza di oltre 700 prelati aventi diritto di voto.

Il regolamento era già fissato, mentre in precedenza era il concilio stesso a fissarlo; non si potevano proporre direttamente gli argomenti, ma c’era una commissione che li discuteva in accordo con il Papa e li presentava al concilio.

Si fissarono 4 deputazioni che dovevano elaborare gli argomenti da proporre poi alla discussione, in materia di:

-         fede;

-         disciplina;

-         ordini religiosi;

-         riti orientali e missioni.

Esse compirono un importante lavoro teologico.

Grande fu il numero degli schemi di decreto e delle proposte che il concilio dovette esaminare.

Il concilio si aprì con non poche incertezze.

Furono invitati anche gli orientali (che non risposero) e i protestanti (che si urtarono).

Poi gli animi si rassicurarono e si formarono 2 schieramenti:

-         De Champs per la maggioranza (più legata all’autorità del Papa);

-         I Vescovi di Vienna, Praga e Budapest per la minoranza (più aperta).

In questo concilio ebbero importanza anche le donne, che discutevano nei salotti.

Il 24 aprile 1870 fu pubblicata la costituzione dogmatica De fide cattolica, detta anche Dei Filius, circa le dottrine fondamentali del cristianesimo, con relativa condanna degli errori dell’ateismo, del razionalismo, del materialismo, del panteismo, ecc. In questo documento si ribadiva che si può conoscere Dio con la ragione, ma per conoscerlo occorre anche la fede: non c’è contrasto tra fede e ragione, perché la fede senza ragione non è valida; ma la fede va oltre la ragione, spiega ciò che la ragione da sola non riesce a spiegare.

Tuttavia, la porzione maggiore del tempo e dell’attenzione fu attratta dalla questione dell’infallibilità papale: su proposta di 480 padri conciliari, questo punto fu presentato al concilio per la discussione.

La trattazione dell’argomento fu anticipata, perché era molto ampia: se ne parlò lungamente e i dibattiti furono assai vivaci. Ci si basava su 2 punti:

-         la definizione è valida col consenso dei Vescovi;

-         la definizione ex-cathedra è valida senza consenso, per l’infallibilità papale.

La maggioranza si espresse a favore del dogma.

Ci furono 57 oppositori (fra cui 12 tedeschi) che chiesero licenza al Papa e partirono da Roma.

Il 18 luglio 1870 ben 533 padri votarono affermativamente e solo 2 negativamente, ma si sottomisero subito dopo (in realtà, i 2 non sapevano che se ne potevano andare).

Pio IX proclamò la costituzione dogmatica De ecclesia Christi, che espone in 4 capitoli il fondamento, la durata perpetua, il valore e l’essenza del primato romano e il magistero infallibile del Papa. Il potere papale è sommo su tutta la Chiesa per quanto riguarda la fede  e i costumi, la disciplina e il governo della Chiesa (episcopato universale). Inoltre, le affermazioni del Papa fatte ex-cathedra in questioni di fede e di costumi sono infallibili, anche senza il consenso della Chiesa.

Questo fu l’ultimo atto solenne del concilio, perché il giorno seguente, il 19 luglio 1870, scoppiò la guerra franco-germanica che costrinse molti prelati al ritorno. L’occupazione di Roma da parte del Piemonte rese il proseguimento dei lavori quasi impossibile; il Papa aggiornò l’assemblea “ad un’epoca più opportuna”.

Purtroppo non tutti gli stati accettarono l’infallibilità papale.

La Germania all’inizio appoggiò i cattolici, ma poi il Bismark sottolineò che i Vescovi avevano perso la loro autorità: con una circolare diceva che i Vescovi erano alle dipendenze di una potenza straniera. I Vescovi risposero che l’episcopato ha una dignità e un’autorità che il Papa non può togliere, perché vengono da Cristo. Il Papa approvò questa circolare.

Tuttavia, un numero considerevole di sacerdoti e laici tedeschi ripudiò la dottrina dell’infallibilità, aprendo così lo scisma dei vecchi cattolici.

Capo spirituale di questo movimento fu il celebre teologo Dollinger, che per la sua opposizione irremovibile fu scomunicato nel 1871.

Mentre inizialmente gli oppositori del concilio s’erano limitati ad una protesta, poi, sebbeno lo stesso Dollinger lo sconsigliasse, decisero di istituire una chiesa separata, quella appunto dei vecchi cattolici. In vari luoghi furono istituite parrocchie a parte e si fece a parte anche un Sinodo, che elesse un proprio Vescovo, con la consacrazione in Olanda.

 

 

LEONE XIII, PIO X E I CATTOLICI NELLA VITA PUBBLICA

 

A Pio IX nel 1878 succedette Leone XIII, uomo di grande cultura e agilità spirituale, con alta capacità politica. Era grande nel colloquio: non imponeva la sua volontà, ma arrivava a soluzioni con trattative.

Coadiuvato da valenti segretari di stato, come Jacobini e Rampolla, riuscì a condurre una politica ecclesiastica diplomaticamente abile e di ampie vedute, che portò il papato ad un livello di potenza e di autorità morale nella Chiesa mai raggiunto.

Nei rapporti con lo Stato Italiano, con l’aiuto di padre Tosti, propose una nuova partecipazione dei cattolici alla vita politica. Ma l’ostilità del governo italiano, influenzato dalla massoneria, non favorì la maturazione di tali tentativi; l’astio anticlericale infieriva particolarmente a Roma.

I cattolici si impegnarono soprattutto in campo pastorale e sociale, anche se il governo ostacolava queste azioni sociali.

In Francia Leone XIII si adoperò assai per distogliere il governo da una politica antiecclesiastica: cercò di unire i cattolici, politicamente divisi, in un’azione comune e chiese a quelli che erano legati alla monarchia di essere fedeli alla repubblica.

In Germania conseguì un grande successo con la conclusione del Kulturkampf: infatti, nella contesa fra Germania e Spagna per il possesso delle isole Caroline, fu proposto a lui l’incarico di arbitro, su proposta del cancelliere imperiale Bismarck; egli assolse all’incarico con soddisfazione di entrambe le parti. Per due volte ricevette anche la visita dell’imperatore Guglielmo II, mentre ai principi cattolici e ai capi di stato era interdetta dal 1870 la visita in forma ufficiale dei sovrani italiani a Roma.

L’attività ecclesiastica interna si svolse in tanti aspetti della vita religiosa: il Papa proseguì l’attività di riforma del concilio Vaticano e pubblicò numerose encicliche programmatiche, per illustrare la vita cristiana in tutti gli aspetti (famiglia, società, stato) e per instaurare un giusto rapporto tra Chiesa e mondo moderno. Nella Rerum novarum del 1891 illustrò la questione operaia, con princìpi tuttora validi (questo ci fa capire che la Chiesa non arriva sempre in ritardo). Per l’incremento e la sorveglianza degli studi biblici, istituì una commissione biblica della S. Sede. Con un’enciclica raccomandò S. Tommaso d’Aquino come guida negli studi filosofici e teologici.

 

A Leone XIII nel 1903 succedette Pio X, canonizzato nel 1954: molti cardinali si erano orientati verso il segretario di stato Rampolla, collaboratore del precedente Papa. Può essere definito come il più grande Papa riformatore dai tempi del concilio di Trento. Egli condusse con severità la lotta contro il modernismo, ritenuto come la sintesi di tutti gli errori moderni.

Si occupò soprattutto della riorganizzazione della Chiesa nel suo interno.

Esplicò una vasta azione legislativa, che raggiunse tutti i settori della vita ecclesiastica.

Si costituì una commissione di cardinali, canonisti e teologi per la preparazione di un nuovo codice di diritto canonico. Fu dato un nuovo ordinamento giuridico all’elezione papale, vietando ogni intromissione in essa del potere secolare (infatti, fino al 1903 la Chiesa subiva ancora dei controlli da parte dello stato). Furono emanate nuove disposizioni circa il matrimonio, l’ufficio pastorale, l’insegnamento religioso. Per gli studi biblici, fu fondato un ateneo pontificio, il cosiddetto Istituto biblico, annesso all’Università Gregoriana. Altre riforme toccarono il culto e la liturgia: riordinamento del breviario e delle feste di precetto, incitamento alla Comunione frequente e il decreto sulla Comunione dei bambini.

Pio X lasciò ai cattolici la libertà di riunirsi in associazioni.

Il suo pontificato, però, fu meno felice dal punto di vista politico-ecclesiastico.

In Francia scoppiò la catastrofe della separazione fra stato e Chiesa.

Nel 1911 anche il Portogallo imitò questo esempio di dichiarata ostilità alla Chiesa.

Pio X vide anche lo scoppio della guerra mondiale, che egli presagiva da tempo.

 

 

GERMANIA E KULTURKAMPF

 

In Germania le associazioni e il movimento sociale dei cattolici ebbero un grande sviluppo.

Alla conferenza vescovile di Wuzburg del 1848 fece seguito un’adunanza dei Vescovi della Renania a Friburgo nel 1851, per chiedere allo stato di non entrare nella Chiesa, ma di rispettare la libertà (i Vescovi erano molto precisi); si reclamava specialmente il diritto dei Vescovi:

-         alla formazione e alla destinazione dei sacerdoti,

-         al governo della disciplina ecclesiastica,

-         all’erezione di scuole e monasteri,

-         al controllo dell’insegnamento religioso,

-         all’amministrazione del patrimonio ecclesiastico.

Poiché la risposta non fu soddisfacente, ci fu una nuova conferenza vescovile a Friburgo nel 1853: i Vescovi procedettero per via di fatto, appropriandosi dei più importanti diritti che venivano loro negati.

L’anziano arcivescovo di Friburgo, Vicari, rigorosamente fedele alla Chiesa, fu posto, temporaneamente, sotto la sorveglianza della polizia.

Egli scomunicò i membri cattolici (in parte sacerdoti) del supremo consiglio ecclesiastico di Karlsruhe e il commissario speciale che lo presiedeva; per questo, fu sottoposto a processo giudiziario per “aver turbato e messo in pericolo la quiete pubblica”.

Nel 1854 dovette scontare 8 giorni di reclusione nel suo palazzo (contesa ecclesiastica del Baden).

Tuttavia, per il suo coraggio, i governi furono costretti ad avviare delle trattative con la Chiesa, per l’appianamento della controversia.

Furono stipulate diverse convenzioni, che però non furono conservate a lungo, per l’opposizione della maggioranza liberale delle camere.

In Prussia la situazione della Chiesa cattolica era abbastanza favorevole.

Ma, con la pubblicazione del Sillabo e la definizione dell’infallibilità papale del concilio Vaticano, si accusò la Chiesa cattolica di essere pericolosa per lo stato: si voleva di nuovo assoggettarla incondizionatamente al potere statale.

La lotta politico-religiosa fu definita Kulturkampf (lotta per la cultura) e capo del conflitto fu il primo ministro prussiano Bismarck, il cui movente principale era quello di fermare l’avanzata politica dei cattolici: ci fu, quindi, l’avversione verso i rappresentanti parlamentari dei cattolici tedeschi, la cosiddetta frazione del Centro.

Il Kulturkampf iniziò nel 1871 con la soppressione della sezione cattolica nel ministero del culto.

Ci furono anche molte leggi con cui il governo cercava di controllare e sottomettere la Chiesa (la legge sul controllo delle scuole; la legge sui Gesuiti, che sopprimeva le case della Compagnia di Gesù e degli ordini affini).

Con le 4 leggi prussiane del maggio 1873, preparate con la collaborazione di canonisti protestanti, la lotta giunse al suo culmine:

-         regolavano la formazione e la destinazione dei sacerdoti;

-         istituivano un tribunale regio per le questioni ecclesiastiche;

-         tracciavano i limiti del diritto penale ecclesiastico;

-         favorivano l’uscita dalla Chiesa stessa.

Queste leggi miravano alla distruzione della gerarchia della Chiesa, trasformando quest’ultima in una chiesa nazionale di stato.

Per metterle in esecuzione, nel 1875 furono aboliti i paragrafi della costituzione del 1850 che garantivano l’autonomia e l’amministrazione indipendente della Chiesa.

I Vescovi e i sacerdoti che non vi si adattarono furono condannati a gravi pene pecuniarie e alla prigione; alcuni arcivescovi furono destituiti.

Le 4 leggi nel 1875 furono inasprite con:

-         l’immorale “legge di privazione e della fame”,

-         la soppressione di tutti gli ordini religiosi (tranne quelli ospedalieri),

-         il favoreggiamento dei vecchi cattolici,

-         l’abolizione dell’esenzione militare per i chierici,

-         la legge di espatrio,

-         l’introduzione del matrimonio civile obbligatorio.

Il Papa dichiarò nulle le leggi che contrastavano con le istituzioni divine della Chiesa, ma la risposta fu l’inasprimento delle leggi.

Le conseguenze furono devastanti:

-         nel 1878 su 12 Vescovi solo 4 erano al loro posto;

-         i seminari vescovili furono chiusi;

-         circa 1.000 parrocchie furono bloccate;

-         molte centinaia di sacerdoti furono espulsi.

Tuttavia, quasi tutto il clero e il popolo si mantennero fedeli al Papa e ai Vescovi; la loro resistenza si accrebbe e le associazioni cattoliche ebbero un’importante fioritura.

Il Centro cattolico, guidato dall’ex ministro Windthorst, profondo cattolico (recitava sempre il Rosario), si rafforzò notevolmente. Nel 1878 vinse l’elezione (da 87 a 117); il partito di Bismarck fu sconfitto (ma poi sorsero molti problemi all’interno della Chiesa) e nel 1880 egli cominciò a smontare gradatamente la legislazione del Kulturkampf.

Le leggi del maggio, però, rimasero valide fino a quando i rapporti tra Bismarck e Leone XIII divennero più amichevoli: il governo prussiano scese a trattative dirette con la S. Sede per concludere la pace.

Questo violento assalto contro la libertà e l’esistenza stessa della Chiesa fu superato così grazie alla tenacia e all’unità dei cattolici.

Gli anni di governo dell’imperatore Guglielmo II (1888-1918), benché egli fosse protestante convinto, furono un periodo di pace e di sviluppo per la Chiesa cattolica tedesca.

Tuttavia molti cattolici si lamentarono per gli ostacoli posti all’attività della Chiesa, per:

-         l’insufficiente parità di diritti nei pubblici impieghi,

-         la tendenza protestantizzante della politica,

-         la progressiva coartazione dell’influsso ecclesiastico nelle scuole.

Inoltre, all’interno della Chiesa ci furono gravi turbamenti per la produzione letteraria cattolica e per il carattere del partito di Centro.

 

FRANCIA

 

In Francia il governo della Terza Repubblica, iniziata dopo la sconfitta della guerra del 1870, che costò il trono a Napoleone III, fu in principio abbastanza favorevole alla Chiesa.

Ma l’indifferentismo e l’ateismo erano ancora molto diffusi, favoriti anche dallo storico Renan con la sua romanzata “Vita di Gesù” e altri scritti sulla storia del cristianesimo primitivo.

I cattolici avevano nostalgia della monarchia e il governo cominciò ad avere un atteggiamento anticlericale. Ebbe inizio così una astiosa lotta culturale, che arrecò gravissimi danni:

-         nel 1879 alle facoltà cattoliche fu tolto il diritto di conferire gradi accademici;

-         nel 1880 le case e le scuole dei Gesuiti furono soppressi e molti monasteri furono chiusi;

-         fu decretato l’obbligo del servizio militare per i chierici;

-         ci fu l’abolizione della cura d’anime militare e ospedaliera;

-         ci fu la laicizzazione dei cimiteri e dei tribunali;

-         fu facilitato il divorzio;

-         fu abolito il riposo domenicale pubblico;

-         fu bandito l’insegnamento religioso nelle scuole statali;

-         fu ordinata l’esclusione dei sacerdoti e dei religiosi dall’insegnamento

Nonostante tutto, però, l’influenza della Chiesa nella vita pubblica francese era ancora notevole.

Perciò, si scatenò una nuova lotta contro le congregazioni religiose, specialmente quelle dedite all’insegnamento: con la legge sulle associazioni del 1901 furono soppressi gli ordini religiosi non autorizzati, poi anche quelli che avevano il riconoscimento statale; fu ordinata anche la chiusura di tutte le loro scuole.

Il fine ultimo del partito dominante era la laicizzazione, cioè la scristianizzazione, dello stato e della società. Si proponeva la separazione dello stato dalla Chiesa.

Quando nel 1904 il Papa Pio X protestò per la visita del presidente Loubet alla corte italiana (era una violazione del precetto vigente per i governi cattolici), il ministro Combes dichiarò rotto il concordato e sospese i rapporti diplomatici con Roma.

La camera (341 voti contro 233) e il senato (179 voti contro 103), nonostante la protesta del Papa e dei Vescovi, approvarono la proposta di separazione fra stato e Chiesa.

La legge di separazione del 1905 garantiva generale libertà di coscienza e di culto, ma proibiva ogni forma di appoggio o finanziamento dello stato a qualunque culto religioso; inoltre, prevedeva la costituzione di associazioni cultuali, a cui dovevano essere affidati in usufrutto l’amministrazione del patrimonio ecclesiastico e gli edifici di culto.

La Chiesa cattolica francese fu spogliata così del diritto di organismo pubblico e ridotta al rango di società privata.

Pio X rigettò quella legge e vietò l’erezione delle associazioni cultuali come contrarie alle leggi canoniche; affidò ai Vescovi il compito di creare un’organizzazione adeguata.

Allora, l’intero patrimonio ecclesiastico fu sequestrato.

Queste tribolazioni, però, esercitarono una grande azione purificatrice e fortificatrice sui cattolici, tanto che lo spirito religioso vide un notevole incremento.

Come associazione privata, la Chiesa ebbe anche maggiore autonomia:

-         molte scuole di congregazioni religiose, che erano state chiuse, poterono venire riaperte sotto forma di scuole private laiche;

-         i Vescovi venivano nominati liberamente dal Papa, senza interferenze dello stato;

-         i parroci venivano designati dai Vescovi.

 

 

GRAN BRETAGNA

 

In Inghilterra la Chiesa cattolica continuò ad avere un florido sviluppo.

Ci furono moltissime conversioni e la vita interna della Chiesa inglese era intensa ed attiva.

Il cardinale Manning si distinse per le sue capacità organizzative; seppe conquistarsi anche la generale considerazione della popolazione operaia di Londra per la sua attività sociale.

Fu tolto il divieto che proibiva agli studenti cattolici di frequentare le università anglicane di Cambridge e di Oxford.

Nel 1916 fu istituita una quarta provincia ecclesiastica per il Galles.

In Scozia il numero dei cattolici aumentò, per cui il Papa fondò altri arcivescovati.

In Irlanda la chiesa alta irlandese fu destatalizzata e il grande seminario centrale di Maynooth ebbe notevoli sussidi.

Nel 1908 il governo fondò un’università nazionale con carattere prevalentemente cattolico.

 

 

AMERICA

 

In America la crescita della Chiesa cattolica fu straordinariamente rapida.

Nel 1908 il Canada contava 8 arcivescovi con 20 diocesi, per circa 2,250 milioni di cattolici, in maggioranza di origine francese; nel 1959 c’erano 15 arcivescovi con 39 diocesi, per circa 7 milioni di fedeli su 16 milioni di abitanti.

Anche qui vige il sistema di separazione fra stato e Chiesa.

La vita religiosa è fervida e il numero degli ordini religiosi è considerevole.

Negli USA la Chiesa cattolica nel 1850 contava 6 province ecclesiastiche con 27 diocesi, nel 1900 14 con 69 diocesi, nel 1956 26 con 114 diocesi.

La Chiesa cattolica rappresenta la comunità cristiana numericamente più forte.

C’è la libertà religiosa, con il massimo rispetto (non c’è il riconoscimento ufficiale di una chiesa, ma tutte sono rispettate).

La nomina dei Vescovi è fatta dal Papa, sulla base di liste di candidati idonei che i Vescovi provinciali inoltrano a Roma ogni 2 anni.

Nel 1926 c’è stato a Chicago il congresso eucaristico mondiale con la partecipazione di oltre 1 milione di fedeli.

Si sono diffusi molti ordini religiosi, anche contemplativi e rigorosi (come i Trappisti) e c’è una fervida opera nel campo della scuola (sono state fondate oltre 10.000 scuole elementari o parrocchiali, più di 2.000 scuole medie, molte centinaia di colleges e 23 università cattoliche, fra cui quella di Washington).

I cattolici sono stati, però, talvolta afflitti da calunnie e ostilità (da parte del movimento Knownothing e della violenta società segreta Ku-Klux-Klan).

Si è sviluppato anche il cosiddetto americanismo, cioè c’è stato un’adesione del cattolicesimo alla cultura moderna americana, con lo sviluppo di devozioni personali e individuali, un maggiore apprezzamento delle virtù naturali ed attive, la tendenza al benessere materiale. Si accentuavano più gli aspetti positivi (cosa fare) e meno quelli negativi (cosa non fare).

Nell’America centrale e meridionale si sono alternati periodi di anticlericalismo e periodi di religiosità devozionale.

Pio IX stipulò le convenzioni con i diversi stati, che confermavano il cattolicesimo come religione di stato; ma esse vennero spesso male applicate, anzi alcuni governi emanarono leggi antiecclesiastiche.

Nel 1958 l’America latina contava più di 180 milioni di cattolici, mentre c’erano 4 milioni di protestanti e 3-4 milioni di pagani.

 

 

VITA INTERNA DELLA CHIESA E ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE

 

In seguito alle nefaste conseguenze della Rivoluzione Francese, la Chiesa si interessò meno dell’aspetto sociale per dedicarsi di più alla sua organizzazione interna e all’aspetto spirituale.

Ci fu una piena maturazione del centralismo, cioè della tendenza a un’organizzazione compatta di tutti i membri della Chiesa sotto il loro capo supremo e una concentrazione del governo ecclesiastico a Roma. Ciò era richiesto dalla necessità di raccogliere ed organizzare tutte le forze religiose di fronte all’assalto, sempre più impetuoso, delle idee distruttive moderne.

Nonostante la perdita del dominio temporale, la S. Sede raggiunse un’autorità e un ascendente quasi mai avuti in secoli precedenti. Essa si dimostrò capace di far fronte anche a situazioni difficilissime, come furono quelle che si verificarono in seguito alla violenta separazione fra stato e Chiesa, in Francia e in altri paesi.

Sotto il pontificato di Pio X fu promossa l’opera di una nuova codificazione del diritto canonico.

La disciplina ecclesiastica e l’ordinamento del culto e della liturgia subirono una serie di riforme e di riforme più o meno rilevanti:

-         riforma del breviario,

-         prassi del digiuno più mite,

-         riforma rito matrimonio,

-         riordinamento calendario festivo,

-         restrizione censure,

-         nascita movimento liturgico (per liturgia più comunitaria),

-         nascita movimento biblico (per maggiore interesse alla S. Scrittura).

La musica sacra venne profondamente rinnovata e organizzata, con il ripristino anche del canto gregoriano.

L’architettura e le arti figurative subirono un notevole sviluppo.

Sorsero numerosi istituti secolari, di cui Pio XII nel 1947 traccerà le linee costitutive: la loro origine nasce dal desiderio di adattare lo stato di perfezione alle condizioni di vita moderne; gli associati sono spinti a svolgere un’attività apostolica e a tendere alla perfezione mediante l’osservanza dei consigli evangelici, pur continuando a vivere nella loro professione secolare.

Il primo di questi istituti secolari fu l’Opus Dei, fondato in Spagna nel 1928.

Sorsero numerose associazioni con fini religiosi, caritativi, culturali e sociali.

La non partecipazione dei cattolici alla vita politica aveva dato la possibilità ai partiti di sinistra di andare avanti. Pio IX si era opposto all’occupazione di Roma non perché fosse contro l’unità d’Italia, ma perché era preoccupato della forte corrente anticlericale che vigeva nel Regno del Piemonte; con il Non expedit, egli aveva vietato ai cattolici di partecipare alla vita pubblica, ma essi si organizzarono per intervenire in tutti i campi della vita sociale e politica. Si formarono, allora, delle associazioni volte a difendere i diritti dei cattolici. Tra queste ricordiamo:

-         Federazione Piana, con lo scopo di difendere i diritti del Papa;

-         Unione Romana, che operava nell’ambito dei comuni;

-         Gioventù Cattolica, formata da giovani;

-         Pia Unione delle Donne, formata da donne.

Nel 1873 queste associazioni furono collegate in un movimento superiore, chiamato Opera dei Congressi o Opera dei Cattolici, che si sviluppò profondamente sotto il pontificato di Leone XIII e si occupò di tutta la vita pubblica:

-         azione generale,

-         azione sociale,

-         istruzione ed educazione,

-         stampa,

-         arte cristiana.

Non si occupò direttamente di politica, ma in modo indiretto, attraverso alte personalità, tra cui ricordiamo lo statista Giuseppe Toniolo e il sacerdote Romolo Murri.

Quando nel 1891 il Papa Leone XIII pubblicò la Rerum Novarum, i cattolici sentirono il bisogno di organizzarsi anche in campo lavorativo; si accentuò così l’aspetto sociale, fondando molte cooperative e casse rurali.

Nel 1892 a Genova ci fu il I Congresso dei cattolici, dove fu risaltato l’aspetto sociale e prevalse la figura di Giuseppe Toniolo, il quale presentò un programma di azione sociale. Nacque anche il periodico Rivista Internazionale degli studi sociali.

Nel 1897 a Milano ci fu un altro Congresso, durante il quale il Toniolo presentò un dettagliato programma sociale d’azione, ritenuto da molti all’avanguardia e che suscitò molto interesse. Aveva anche la rivista Cultura Sociale.

Quest’azione cattolica fu vista dal governo alla pari di quella socialista; esso intervenne, allora, contro entrambe. Nel 1898 fu disposta la chiusura di tutte le organizzazioni, cattoliche comprese.

Proprio quest’intervento dello stato fece percepire l’esigenza di un’azione diretta dei cattolici nella politica.

Ma sorse un problema: può esistere una democrazia cristiana, cioè un governo democratico con princìpi cristiani?

Il francese Maurice Vaussard definì la democrazia cristiana come “il tentativo di inserire, nella vita pubblica, lo spirito del Vangelo e i principi morali diffusi dalla Chiesa”.

Nel frattempo la S. Sede aveva permesso in alcuni paesi, come la Germania, l’azione diretta dei cattolici in politica.

Sorse però un altro problema: poteva la Chiesa accettare un governo democratico, dal momento che essa era strutturata gerarchicamente?

Con l’enciclica Graves de comune del 1901, il Papa mise in evidenza il pericolo della riduzione di tutta l’azione della Chiesa in una semplice azione sociale ed assistenziale.

Il Toniolo fu autorizzato a dare una definizione di democrazia, vista come “ordinamento della società civile in cui tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperino proporzionalmente al bene comune, mirando ad un incremento dei vantaggi delle classi più deboli”.

All’interno dell’Opera dei Congressi sorsero 2 correnti:

-         moderata-tradizionalista (anziani), che era dipendente direttamente dalla gerarchia e non voleva entrare in prima linea in campo politico;

-         progressista (giovani), capeggiata da Romolo Murri, che aveva l’intento di entrare direttamente in politica.

Giornale d’ispirazione cattolica era il Domani d’Italia, che contava 4.000 copie.

Romolo Murri era sacerdote già a 23 anni; si mostrò grande organizzatore, leader e trascinatore di masse. Aveva grande stima di se stesso: voleva che il mondo cambiasse secondo le “sue” idee e questo portò a dei contrasti con la gerarchia.

Si occupò all’inizio del movimento universitario, fondando la F.U.C.I., e fondò anche il giornale Vita Nuova.

Quando nel 1898 il governo fece chiudere tutte le organizzazioni, il Murri chiese di reagire con fermezza, usando se necessario anche la violenza. Nacquero forti contrasti con la Chiesa e gli fu chiesto di sottomettersi all’autorità ecclesiastica; gli fu anche ricordato che a capo dei movimenti cattolici dovevano esserci persone preposte dalla stessa autorità, seguendo nell’agire le linee poste dalla Chiesa stessa.

Nel 1902, al Congresso di S. Marino, il Murri arrivò ad affermare che occorreva sganciarsi dall’autorità ecclesiastica; il segretario di stato lo riprese fortemente e lui si sottomise, ricevendo anche la benedizione del Papa.

Al successivo Congresso di Bologna, la maggioranza dei 1.800 membri si dichiarò a favore del Murri. La frattura divenne consistente e la corrente tradizionalista chiese l’intervento del Papa per la risoluzione: egli esortò i cattolici all’unità e alla necessità di subordinarsi all’autorità. Ma la corrente giovanile rimase sulle sue posizioni.

Nel 1904 il Papa fu costretto a sciogliere l’Opera dei Congressi.

Il Murri, non accettando la situazione, fondò la Lega democratica cattolica e la Rivista di cultura, che ebbero vita breve.

Richiamato ripetutamente, fu sospeso e scomunicato; entrò a far parte del Parlamento, nelle file radicali, e visse lontano dalla Chiesa, ma quando morì, nel 1943, chiese ed ottenne i sacramenti.

Dopo l’Opera dei Congressi, si sentì la necessità di ricreare un movimento cattolico e nel 1905 il Papa Pio X fondò una nuova associazione, simile alla precedente, con i seguenti settori:

-         unione popolare;

-         unione economico-sociale;

-         società della Gioventù Cattolica, a cui si aggiunse l’Unione femminile;

-         unione elettorale cattolica, tenuta poi da Montini, padre del futuro Papa.

Questo movimento doveva agire completamente in diretta collaborazione con la gerarchia: si gettavano le basi per la nascita dell’Azione Cattolica.

Sorse inoltre la necessità di distinguere l’azione della Chiesa dall’azione politica dei cattolici: a tal fine il Papa permise ai cattolici di partecipare alla vita politica (a titolo personale, non come esponente del pensiero della Chiesa).

Nel 1909 si ebbero 20 deputati cattolici, alleati inizialmente con i partiti della destra(era forte la lotta al comunismo e al socialismo).

Nel 1913 si giunse al Patto Gentiloni: i cattolici si impegnarono ad appoggiare alcuni esponenti di partiti, soprattutto liberali, e questi avrebbero assicurato il rispetto e la diffusione dei princìpi cristiani.

Poi si diede la possibilità di organizzare un partito politico, fondato in seguito da Luigi Sturzo, che mise le basi di quello che nell’immediato dopo-guerra, sarà il Partito Popolare.

I cattolici allora erano molto uniti in campo politico, a differenza di oggi.

Anche in Germania c’era il partito di centro, con Ketteler.

Ma in Italia la situazione era diversa, perché non si riconosceva il governo.

 

 

SCIENZE SACRE E MODERNISMO

 

Le scienze sacre, vivamente incrementate dai Papi (specialmente da Leone XIII) fecero vistosi progressi.

Dopo un primo periodo nel quale il pensiero cristiano, oltre che a diffondersi, dovette preoccuparsi degli attacchi che provenivano dal giudaismo e dal paganesimo, con l’avvento dei barbari e la caduta dell’Impero Romano la Chiesa divenne una forza essenziale per la riorganizzazione dello stato e della società.

Si partì dall’approfondimento dei grandi temi della metafisica e della trinitaria.

Col tardo Medioevo iniziò un periodo di strutturazione sistematica del pensiero della dottrina della Chiesa: nacque la Scolastica.

Nel XIV secolo, con Duns Scoto, la riflessione si spostò dal pensiero all’azione, mettendo l’accento sulla volontà: si abbandonò la metafisica per tornare alla concretezza.

Il nuovo sistema fu approfondito da Guglielmo da Ockham, che negò gli universali e si incamminò verso una filosofia soggettivista, in cui tutto è relativo.

Dopo la Riforma e il Concilio di Trento, si affacciò un nuovo sistema ideologico, l’Illuminismo, al quale si arrivò grazie a 2 tendenze:

-         il razionalismo di Cartesio, che arrivò ad affermare che tutto deve essere spiegabile con la ragione;

-         l’empirismo di Bacone, che provocò la scissione tra scienza e fede, arrivando a negare la Rivelazione.

Nacque la nuova teologia di Cherbury, il deismo, secondo cui noi dobbiamo avere la certezza che esiste un Dio, dobbiamo dargli culto, praticare le virtù e fuggire il peccato, per avere un premio finale (una religione retribuzionista).

Spinoza ammise l’esistenza di una sostanza divina unica con un’infinità di attributi, tra i quali razionalità ed estensione: ritenne che la S. Scrittura era un’allegoria per poter esplicitare 2 punti fondamentali, cioè l’amore per Dio e per il prossimo.

Hume ritenne che Dio è la stessa Natura, negando il principio di causalità.

Il problema della conoscenza di Dio venne affrontato anche da Kant, che nella “Critica della ragion pura” negò la possibilità della conoscenza di Dio attraverso la metafisica: solo attraverso la via morale, con la “Critica della ragion pratica”, possiamo giungervi.

Per Feuerbach è l’uomo che crea Dio e non il contrario, per riversare in Lui le sue esigenze e prerogative fondamentali.

Arrivò il momento del Panteismo:

-         materialista con Marx, che ridusse tutto alla realtà economica;

-         intellettuale-spirituale con Hegel, secondo cui la realtà si trova nell’idea, che è principio intelligibile del creato, e la creatura non è altro che l’estrinsecazione dell’idea nello spazio e nel tempo.

Fra i diversi fattori, che provocarono lo spostamento dell’attenzione dalla sfera spirituale a quella materialista, vi è la ricerca scientifica.

Lamarck, nella sua “Filosofia zoologica”, affermò il principio dell’evoluzione: è l’esigenza a creare l’organo.

Darwin parlò della selezione naturale della specie: l’essere più forte ha il sopravvento sul più debole.

Si accentuò il distacco tra fede e scienza, poiché le teorie dell’evoluzionismo e della selezione della specie si rivelarono in contraddizione con la Rivelazione.

Con la Rivoluzione Francese, la Chiesa si purificò e si rafforzò, tuttavia era preoccupata delle conseguenze di questa grande rivoluzione; avvertiva un senso di paura nei confronti delle nuove idee del tempo, facendo seguire un atteggiamento di chiusura e di opposizione ai cambiamenti.

C’era un allontanamento della società dai valori cristiani. C’era la disgregazione di tutti i valori. Era proprio la società che crollava.

La Chiesa cattolica, collocata in mezzo allo sviluppo della cultura moderna, ebbe a risentirne i pericolosi influssi.

Ci furono diverse tendenze anticristriane e antiecclesiastiche:

- il soggettivismo e l’individualismo, sprigionato nel Protestantesimo e nell’Illuminismo, a cui si ispirò anche il liberalismo, concezione ideologico-politica che reclamava una illimitata libertà di movimento dell’individuo nella sua vita privata e in quella pubblica, nel campo politico, sociale, economico e religioso (rigettava ogni autorità che trascende la ragione, anche quella ecclesiastica, e sosteneva l’autonomia più assoluta della creatività, portando alla completa laicizzazione della vita pubblica);

- il positivismo, che ammetteva come oggetto della conoscenza solo dati empirici, cioè scientifici, e negava ogni metafisica (fu fondato dal francese Augusto Comte e tra i proseliti c’era Emile Zola, maestro del romanzo naturalistico);

- l’agnosticismo, che era una variazione del positivismo e divenne l’ideologia di molti naturalisti e medici, conquistando le masse dei semi-intellettuali;

- lo storicismo, che impostava la storia con la teoria dell’evoluzione, senza principi filosofici e religiosi;

- il materialismo, che fu fondato verso la metà del 1800 da alcuni pensatori, fra cui spiccava Feuerbach, secondo il quale è l’uomo che crea Dio e non il contrario;

- il socialismo, il cui avvento fu provocato dallo sviluppo sorprendente dell’industria e delle macchine, dall’ingigantirsi del capitalismo e dalla formazione delle grandi città moderne (suo fondatore fu il francese Saint-Simon, che credette di instaurare un nuovo ordine sociale, mediante il trasferimento della proprietà alla società stessa e l’opportuna suddivisione dei frutti del lavoro generale); in seguito si distinse un socialismo moderato rispetto al socialismo scientifico o comunismo, derivante dal pensiero di Marx.

Ad aumentare il disorientamento si aggiunse la filosofia pessimistica e del tutto anticattolica di Schopenhauer: c’era sempre più la lotta tra fede e incredulità, per cui si andava verso l’aspetto del pessimismo.

Partendo da una concezione radicalmente negativa circa l’origine del cristianesimo, il filosofo Nietzsche proclamò un sovvertimento di tutti i valori: la morale del “superuomo” andava sostituendosi a quella che lui riteneva la morale degli “schiavi”, cioè quella del cristianesimo.

Alla schiera degli avversari del cristianesimo si aggiunsero presto i cultori delle molte forme di occultismo.

C’era anche un risveglio dei valori, ma per difendersi da queste ondate.

Ci fu un risveglio della spiritualità e della metafisica, soprattutto con la filosofia della vita, che però era un aspetto del materialismo: la vita era definita come una incommensurabile gioia d’esistere e come volontà di potenza, a prescindere da tutto ciò che sta al di là o al di sopra della vita stessa (era, più o meno, quello che diceva Nietzsche).

Da questa filosofia nacque poi l’esistenzialismo, che si rifece anche alle esperienze religiose di Pascal, di Kierkegaard e di Newman: si ripudiavano il pensiero astratto e i sistemi assoluti, volgendo tutta l’attenzione all’esistenza e all’esperienza dell’individuo. Mentre Heidegger e Sartre esclusero l’esistenza di Dio o la negarono, Marcel considerava l’essere dell’uomo come un insieme di iniziativa e vocazione, che presuppone il rapporto con Dio.

Dinanzi a queste correnti, la Chiesa cattolica si chiuse in una fortezza barricata, per salvare il tesoro della religione e per fronteggiare con forze concentrate l’assalto impetuoso di queste tendenze di pensiero.

I primi a risentire di questa nuova mentalità del tempo furono i protestanti:

-         Reimaruss, più estremista, riteneva il Cristianesimo un’impostura;

-         Enrico Paulus, più moderato, riteneva Gesù un “medico”, un “mago”;

-         Franz Strass, fautore della “teoria del mito”, riteneva che tutta la Bibbia è un simbolismo;

-         Renan, nella sua “Vita di Gesù”, esaltò Gesù come personaggio eroico (la sua risurrezione è da intendere nel fatto che egli resta vivo nel cuore e nel ricordo delle persone);

-         Franz Schleiermacher in un primo tempo negò il concetto di Dio e dell’immortalità dell’anima; poi, contrario alla tesi moralistica kantiana sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio, si fece promotore di una nuova tesi, e cioè che l’unica via per conoscere Dio è quella “sentimentale”, aliena alla morale e alla ragione, cosa che è avvenuta con Gesù (tale asserzione ebbe gravi conseguenze, perché, se l’esperienza religiosa si riduce al sentimento, dal momento che questo varia da persona a persona non si può più parlare di dogma, che venne ridotto solamente ad un modo di esprimersi della fede in un determinato periodo storico).

Nell’ambito cattolico non si sono avute sempre posizioni omogenee.

Si ebbero diverse controversie teologiche e più di una volta l’autorità ecclesiastica dovette intervenire contro errori e deviazioni:

-         Frohschammer, professore di filosofia a Monaco, negava ogni dipendenza della scienza dalla Rivelazione e dall’autorità della Chiesa (fu condannato nel 1857 e nel 1862 e si allontanò completamente dal cristianesimo della Chiesa);

-         l’ontologismo era la dottrina di una conoscenza immediata di Dio (fu condannata nel 1861 e nel 1866);

-         il cattolicesimo riformista aspirava ad incrementare l’ascendente della Chiesa con un accostamento alla cultura moderna, lottando contro tutti gli elementi vecchi e sorpassati, ma si andò troppo in là (alcune opere furono condannate nel 1898);

-         l’americanismo metteva di più l’accento sull’attività che sulla dottrina.

Preoccupante fu il comparire (in Francia e poi anche in Inghilterra, Italia e Germania) di una corrente razionalistica in seno alla filosofia e alla teologia cattolica agli inizi del 1900, combattuta col nome di modernismo: si voleva un riavvicinamento della Chiesa alla società, poiché dopo la Rivoluzione Francese essa aveva cercato di ricostruire se stessa lontana dal concreto e dal reale, staccandosi sempre più dalla cultura, dalla scienza e dalla società.

Ci fu, allora, una riscoperta delle scienze storiche ed un’apertura all’analisi critica della S. Scrittura.

Tra i maggiori esponenti ricordiamo:

-         Duchense, che, analizzando criticamente il “Liber Pontificalis” (biografia dei Padri), portò alla luce l’esistenza di diversi falsi storici e l’impossibilità di dimostrare storicamente certi fatti;

-         Maurice Blondel, che mise in evidenza il principio dell’immanenza, cioè a Dio si giunge con tutto l’essere (Intelligenza, volontà e sentimento).

Il maggior esponente del modernismo cattolico fu il sacerdote Alfred Loisy, che fondò un’associazione a scopo pastorale e caritativo; di grandi capacità organizzative e critiche, a soli 23 anni ebbe l’incarico di insegnare ebraico e S. Scrittura all’Istituto Cattolico di Parigi.

Nel 1890 pubblicò uno studio, “Il canone scritturistico”, con cui negava ogni valore all’ispirazione; fondò anche la rivista “Insegnamento biblico”, in cui affermava che non tutta la Bibbia è storica. Loisy vedeva errori in tutto, anche nella S. Scrittura: diceva che certi fatti non sono storici, ma hanno solo un insegnamento morale; poi parlò proprio di errori. Gli fu tolto l’insegnamento delle S. Scritture, ad eccezione delle lingue.

Al tempo della pubblicazione della Provvidentissimus Deus, accettò i richiami del Pontefice e si rifugiò nel silenzio e nella riflessione, dedicandosi all’approfondimento delle sue idee.

Continuarono poi le pubblicazioni che negavano il principio di ispirazione della S. Scrittura; negò anche la storicità del libro della Genesi, a cui seguì immediato il richiamo del suo cardinale.

In seguito, ottenne la cattedra di insegnamento alla Sorbona; pubblicò l’opera “Su un piccolo libro”, dove fece la distinzione tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Negò anche l’autorità della Chiesa e il valore del dogma.

La scomunica non tardò a venire e morì non riconciliato con la Chiesa.

Altri modernisti da ricordare furono:

-         Albert Houtin, professore francese;

-         Georg Tyrrell, inglese ed ex gesuita.

In Italia, pur non essendoci esponenti di rilievo, ricordiamo la rivista Il rinnovamento, che si fece portatrice di queste idee.

Murri fece delle affermazioni che mettevano troppo in evidenza i sentimenti, per cui si accostò ai modernisti.

Bonaiuti, professore di storia, in un primo tempo fu modernista moderato (seguiva Blondel, che diceva che a Dio si va con l’intelligenza e il sentimento); poi divenne estremista (seguiva Loisy):

-         nelle “Lettere di un prete modernista” presentò il cristianesimo come una forza sociale;

-         nella “Storia del cristianesimo” pose l’accento sulla negatività del post-Concilio di Trento.

Fu scomunicato nel 1921 e, pur rimanendo fuori della Chiesa, rimase fedele ai suoi impegni sacerdotali.

Altri modernisti italiani furono Casati e Scotti.

Si discute sul numero dei modernisti: Tyrrell diceva che il numero era di 40.000 e Loisy 15.000 (cifre comunque esagerate!). Gli esponenti eminenti non superarono una dozzina di unità.

Nel 1907 il Papa, con il Decreto Lamentabili e poi con l’Enciclica Pascenti, condannò l’agnosticismo e l’immanentismo, ritenendo che il modernismo avesse un concetto sviato del soprannaturale, della fede, dell’ispirazione, del dogma e dell’autorità.

Pio X riteneva il modernismo “la sintesi di tutte le eresie”, cioè l’eresia delle eresie. Fu molto severo, perché era una fede troppo personale.

Si pose, perciò, l’attenzione alla formazione dei sacerdoti: gli insegnanti dei seminaristi dovevano prima prestare giuramento contro il modernismo.

 

 

PROTESTANTESIMO

 

Tra i protestanti c’erano delle differenze e dei contrasti che, nonostante i ripetuti tentativi di accordo, continuarono a mantenersi evidenti. Però, pur rimanendo divisi, essi si unirono per combattere il comune nemico: il cattolicesimo. Soprattutto i protestanti tedeschi, di fronte al cattolicesimo, si sentivano come una unità compatta.

Al Gustav-Adolf-Verein, dedito alla cura della diaspora protestante, si aggiunse una nuova organizzazione, la Lega evangelica, che si propose più esplicitamente la lotta contro il cattolicesimo.

Purtroppo, negli ultimi decenni prima della guerra mondiale, molti protestanti si allontanarono dal cristianesimo, uscendo del tutto dalla loro chiesa oppure accontentandosi di un’appartenenza solo esteriore; pertanto, si organizzò una missione interna per recuperare gli elementi perduti.

Molte classi e professioni formarono delle associazioni, che presero parte a questa missione interna.

Alle necessità sociali si rivolse un movimento, capeggiato dal predicatore Stocker.

In Inghilterra, caratterizzata da un forte istinto di libertà unito a un forte spirito conservativo del passato e della tradizione, le controversie religiose non assunsero una forma così violenta come in Germania. Si diffuse però in molte chiese l’anglocattolicesimo o ritualismo, cioè l’avvicinamento di alcuni anglicani alla Chiesa cattolica (alcune chiese avevano il confessionale, il tabernacolo, ecc.).

Negli USA i protestanti erano appartenenti a circa 200 diverse denominazioni (soprattutto battisti e metodisti). Anche qui si unirono spesso in organizzazioni più grandi, per combattere insieme il cattolicesimo.

Alle sette sorte in passato (battisti, metodisti, avventisti) si aggiunsero nuovi movimenti di risveglio, fra cui ricordiamo:

- l’esercito della salvezza, setta molto chiassosa, fondata dal predicatore Booth, una forma di metodismo militarmente organizzato, che dà pochissimo peso alle dottrine dogmatiche e ai sacramenti, ma si occupa della conversione dei peccatori con mezzi psicologici sentimentali (esplicò nelle grandi città una vasta attività sociale e caritativa, lottando contro l’alcoolismo e l’immoralità, e curando i senzatetto, i disoccupati e i profughi);

- lo scientismo, fondato dall’americana Baker e basato su una concezione naturale e panteistica della religione (è lo spirito a dare equilibrio e non la materia; ogni malattia può essere guarita con la preghiera; il peccato è dovuto ad un errore di pensiero circa il rapporto del mondo, di Dio e dell’uomo, che va superato mediante la retta cognizione);

- l’Unione internazionale dei veri ricercatori della Bibbia (o Testimoni di Geova), setta entusiastica che attendeva la seconda venuta di Cristo e il regno millenario già in diverse date (fu fondata in America nel 1872 da Russel, condannato dal tribunale americano per violenze contro la moglie); la sua interpretazione arbitraria della Bibbia è un metodo insidioso per confondere la testa di molti.

 

CHIESA ORTODOSSA

 

La liberazione dei popoli cristiani dei Balcani dalla tirannia turca fece notevoli progressi nella seconda metà del 1800.

In seguito alla guerra russo-turca del 1877-1878, la Romania, la Serbia, il Montenegro e la Bulgaria divennero principati autonomi.

La Bosnia e l’Erzegovina furono occupate e nel 1908 annesse all’Austria.

Per quanto concerne l’ordinamento ecclesiastico, dietro l’esempio del regno di Grecia, anche la Romania e la Serbia si distaccarono dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli e divennero chiese nazionali autocefale, nelle quali lo stato domina la chiesa.

Dopo la guerra balcanica del 1912-1913, che restrinse ancora di più il territorio giurisdizionale del patriarcato di Costantinopoli, il primato di quest’ultimo divenne solo un “primato d’onore”.

La chiesa greca ha sempre avuto una vita spirituale abbastanza vivace, sviluppando anche una scienza teologica, dipendente spesso dalla teologia protestante; tuttavia, il clero ordinario aveva scarsa istruzione.

I rapporti tra la chiesa greca e quella cattolica romana furono sempre poco amichevoli: i tentativi di unione, portati avanti da più parti, non ebbero mai successo.

Il secondo grande ramo della chiesa ortodossa d’Oriente è la chiesa russa, che ha in comune con quella greca il credo, la liturgia e le istituzioni rituali, ma è autonoma dal 1589. Lo zar era custode supremo dell’ortodossia: i cattolici dovevano sottomettersi al metropolita di Mosca; rifiutando, furono smantellati insieme agli uniati.

La chiesa russa diffuse la fede fra i maomettani e i pagani della Russia asiatica, soprattutto in Siberia, e portò avanti una vasta opera missionaria.

Essa vanta di vanissimi scrittori d’importanza europea: il più eminente è Dostoevskij, che, con i suoi romanzi e la sua poesia, divenne il portavoce genuino dello spirito e dell’ortodossia russa di fronte alla “corruzione” occidentale.

 

 

I GUERRA MONDIALE

 

Prevista da molti, nel 1914 scoppiò la I guerra mondiale, nella quale furono coinvolti, un po’ alla volta, volontariamente o per forza, quasi tutti gli stati della terra.

La scintilla fu l’omicidio del 28 giugno 1914 a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono austriaco, e di sua moglie, per mano di uno studente bosniaco. L’Austria inviò allora un ultimatum: smantellare entro 48 ore i movimenti eversivi diretti contro l’Austria.

Data la situazione particolare, c’era in corso una politica di espansione. C’era l’esigenza di emergere come potenza.

Le potenze mortificate, dopo il Congresso di Vienna, erano Germania e Italia.

Le cause di questa catastrofe mondiale furono, perciò, soprattutto politiche:

-         la Germania, ottenuta l’unificazione con il Bismarck, con Guglielmo II voleva riacquistare il prestigio; voleva entrare tra le grandi potenze, dopo essere stata costretta dalle altre nazioni vicine a rimanere divisa e debole nel centro dell’Europa;

-         la Russia e l’Austria aspiravano ad espandersi nel Mediterraneo, per cui si fecero protettrici dei Balcani, per avere uno sbocco.

Tuttavia, le cause più profonde furono ideologiche:

-         l’allontanamento da Dio degli stati e dei popoli;

-         la defezione dagli ideali cristiani e dallo spirito comunitario del passato;

-         il deliberato orientamento verso i beni materiali e l’egoismo nazionale acristiano.

Le conseguenze furono terribili, anche se in tutti i paesi ci fu un accentuarsi della religiosità e della vita ecclesiastica: la frequenza alle funzioni sacre registrò un notevole incremento.

In Francia e in Italia, però, molti ecclesiastici furono obbligati, per disposizione di legge, a partecipare alla guerra con le armi.

In tutti i paesi europei nacque contestualmente il problema sociale, che trovò la sua attuazione violenta in Russia: qui nel 1917 scoppiò una rivoluzione, lo zar Nicola II fu rovesciato e venne proclamata la repubblica; ma i socialisti radicali, guidati da Lenin, s’impadronirono del potere e organizzarono, fra orrori atroci, una dittatura del proletariato.

Anche in Austria si giunse al crollo della monarchia e diversi territori passarono anche all’Italia (Trentino Alto-Adige, Trieste e Istria).

Nella Germania si mise in moto nel 1919 la rivoluzione socialista: l’imperatore Guglielmo II rinunciò alla corona e andò in esilio in Olanda, mentre nei singoli stati generali veniva instaurata la repubblica.

L’esito del conflitto mondiale fu particolarmente gravoso per lo stato tedesco, che dovette cedere:

- alla Francia: Alsazia e Lorena;

- alla Polonia: Posnania, Prussia occidentale e Alta Slesia;

- alla Danimarca: Schleswig.

A ciò si aggiunse l’invasione francese nel 1923 del territorio della Ruhr.

La Germania e l’Austria non erano più soggetto, ma solo oggetto della politica internazionale, specie di quella della Francia, che s’era riproposta l’ideale napoleonico di un’egemonia militare in Europa.

I problemi non vennero risolti, perché i paesi vincitori volevano punire non solo politicamente, ma anche moralmente, le nazioni vinte: soprattutto si voleva umiliare e rendere debole la Germania.

Nel 1929 ci fu anche una crisi economica, che aggravò la situazione.

Anche l’Italia ne uscì amareggiata, perché ricevette poche concessioni.

A ciò si aggiunse la delusione che portò il costituirsi della Società delle nazioni, fondata per iniziativa di Wilson, che apparve come strumento delle potenze vittoriose per tener soggette quelle sconfitte, piuttosto che una suprema corte imparziale intenta a tutelare e mantenere la pace mondiale.

In risposta a questa situazione, si assistette ad un risorgere generale dei valori cristiani.

Si riponeva grande fiducia nello stato, quale strumento per ristabilire i sani principi: si preparò così il terreno adatto per le grandi dittature. Infatti, specialmente negli stati rimasti insoddisfatti nel 1918, si fece avanti l’idea di una guida autoritaria dello stato, in risposta al fallimento delle democrazie parlamentari.

C’erano malcontenti sia tra gli stati vinti che tra quelli vincitori.

La Germania era stata troppo umiliata e cercava la vittoria; si riorganizzò, così, per vendicarsi dei torti subìti.

L’Italia si sentiva offesa e soffocata.

Questa situazione fu terreno fertile per un secondo conflitto mondiale.

La I guerra mondiale assegnò anche al papato un compito alto.

Successore di Pio X, nel 1914 fu eletto Benedetto XV, che levò instancabilmente la sua voce contro la guerra e la sua prosecuzione. Durante i 4 anni del conflitto mondiale, nonostante le pressioni degli alleati, il Papa osservò un’incrollabile imparzialità. Poi si dedicò con tutte le sua energie a lenire i disagi che la guerra provocò.

Ne derivò un forte incremento della potenza morale e dell’ascendente internazionale del papato: dopo l’inizio della guerra Inghilterra e Olanda istituirono delle ambasciate presso la S. Sede, mentre altri stati chiesero di allacciare con essa dei rapporti diplomatici (persino la Francia nel 1921 accreditò un ambasciatore presso il Vaticano).

Quando nel 1915 anche l’Italia entrò in guerra, si ripresentò la questione romana, che il Papa cercò di risolvere: nel 1920 mitigò le severe prescrizioni vigenti per la visita a Roma di sovrani e capi di stato cattolici.

Intanto, aveva abolito anche il principio del Non expedit e nel 1919, sotto la direzione di don Luigi Sturzo e con il tacito consenso della S. Sede, era stato fondato il Partito Popolare Italiano, con propria responsabilità politica e con programma democratico e sociale. Fu dichiarato partito e non associazione:

-         l’associazione cattolica non deve fare solo politica, perché si rivolge a tutti;

-         il partito permette ai cattolici di occuparsi di politica.

Per quanto riguarda la vita interna della Chiesa, fu portata a termine l’opera di Pio X sulla riforma della vita ecclesiastica: l’avvenimento più importante in questo settore fu la promulgazione del nuovo Codex iuris canonici del 1917, chiamato “pio-benedettino”.

Per l’incremento degli studi teologici, nel 1915 fu istituita la S. Congregazione cardinalizia dei seminari e delle università degli studi.

Per la trattazione delle questioni attinenti alle chiese orientali, nel 1917 fu fondata un’apposita Congregazione.

Nel 1922 il Papa fu colto da una morte inaspettata e prematura.

Suo successore fu Pio XI, prefetto della Biblioteca Ambrosiana e poi della Biblioteca Vaticana, in seguito arcivescovo di Milano. Si dice che, eletto Papa, per 1 anno non fece nulla (sosteneva: “Lasciatemi vedere prima le cose e poi agirò”).

Significativo il suo motto: Pax Christi in regno Christi, che divenne il programma del suo pontificato, presente nella sua prima enciclica Ubi arcano del 1922; l’enciclica era adeguata ai suoi tempi, quando si volevano fare regni umani con una pace umana (la I guerra mondiale non risolse i problemi).

Introdusse la festa di Cristo Re e creò l’Azione Cattolica, che chiamava i laici cattolici a partecipare all’apostolato della gerarchia, per rinnovare tutta la società con lo stile di Cristo, senza però entrare in politica.

Intraprese anche numerose canonizzazioni, tra cui S. Teresina, il curato d’Ars e don Bosco.

Con la Casti connubi si oppose ai moderni errori ed abusi, rivendicando la tutela dell’educazione cristiana e del matrimonio.

Con l’enciclica Ad cattolici sacerdotii egli tracciò l’ideale del sacerdote del nostro tempo.

Con l’enciclica Quadragesimo anno del 1931 (40° anniversario della Rerum Novarum), espose l’elaborazione dei concetti per un retto ordine sociale.

Si preoccupò di incrementare le missioni; diede largo incremento anche alla scienza e all’arte, fondando la Pontificia Accademia delle scienze e numerose università cattoliche.

Nelle circostanze particolarmente difficili del dopo-guerra, si preoccupò di riallacciare i rapporti e di stipulare numerosi concordati con diversi stati e nazioni (il suo pontificato può essere definito una nuova era di concordati).

Tuttavia, l’avvenimento politico-ecclesiastico più importante del suo pontificato fu la risoluzione della questione romana e la conciliazione del papato col Regno d’Italia.

La cosa fu facilitata dal fatto che nel 1922 il fascismo, guidato dal duce Benito Mussolini, si impadronì del potere ed eliminò rapidamente tutti gli altri partiti.

Il fascismo si rivolse sin dall’inizio contro la democrazia, il liberalismo e la massoneria, assumendo generalmente un atteggiamento favorevole nei riguardi della Chiesa, che apprezzava come fattore di civiltà nazionale:

-         fu ripristinato l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole elementari;

-         furono rimessi i crocifissi nelle scuole, negli ospedali e nei tribunali;

-         gli ecclesiastici furono esentati dal servizio militare;

-         furono nominati dei cappellani militari;

-         le feste cattoliche furono riconosciute dallo stato.

Mussolini si rese anche conto dell’importanza di un accordo con il papato, per una pacificazione politica interna e per il consolidamento esterno dell’Italia. Si arrivò così alla stipulazione dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, che pose fine (dopo 60 anni) alla controversia tra il Vaticano e il Quirinale. Essi si compongono di:

-         il trattato, con cui l’Italia riconosce il Vaticano come stato e il Vaticano riconosce Roma come capitale d’Italia (l’extra-territorialità riguarda le basiliche e Castel Gandolfo, dove la polizia italiana non può entrare);

-         il concordato, che regola le condizioni giuridiche della religione e della Chiesa cattolica in Italia (libero esercizio del potere spirituale, libera comunicazione col clero e con i fedeli, cura d’anime delle forze armate, libera elezione dei Vescovi, ecc.);

-         una terza parte riguarda le questioni economiche, con cui l’Italia si impegna a dare al Vaticano anche tutto il necessario per le telecomunicazioni (telefono, radio, ecc.).

Promotore di questi Patti fu proprio Mussolini, per risolvere il problema religioso ed avere l’appoggio della Chiesa.

Egli, però, non fu molto coerente, perché cercò successivamente di andare contro il concordato stipulato con la Chiesa, cercando di ostacolare l’operato dell’Azione Cattolica: voleva formare i giovani secondo le sue idee e non poteva transigere sull’esistenza di un’altra associazione non statale che avesse lo scopo di educare le coscienze. Ma il problema si risolse impedendo alle associazioni cattoliche di agire direttamente in politica: essa riprese la sua azione, perché non ci si occupava di politica.

Nel 1984 è stato fatto un altro concordato, ma la festa rimane l’11 febbraio, perché è in quella data del 1929 che nacque il Vaticano (Conciliazione).

Dopo la I guerra mondiale i trattati di pace avevano umiliato la Germania, e anche l’Italia.

Come concorrenza si fece presa sul nazionalismo e sulla necessità di una guida autoritaria dello stato (duce): ci si avviò, così, verso la II guerra mondiale.